Rinuncio a capire per quali arcane ragioni ci sia stato tramandato come prodotto incerti auctoris un trattato consolatorio del quale è piena di accenni la corrispondenza di Cicerone, e che poi nessun falsario avrebbe avuto motivo per inventare. Che per di più porta in ogni riga un'implicita sua firma, evidente nei nuovi arricchimenti di pensiero che il ritiro di Astura sta procurando al suo tribolato spirito.
Ho letto questa Consolatio, lasciandomi trascinare da una irresistibile curiosità, allorché la pagina dedicata il 14 Ottobre al "giallo della Tulliola" mi orientava verso i ricordi più teneri di un padre sensibilissimo per la sua adorata figliola. E non posso ora reprimere il senso di obbligo di farvi conoscere il meglio di quanto voi stessi potreste riscoprire.
Casus enim ereptae nobis filiae, quam oculis ferebamus,
eximiis sed virtutis et prudentiae laudibus praestantem,
ita nos vel perculit vel afflixit, ut ab iis
opem ad leniendum et mitigandum dolorem petere coacti simus,
quorum maxime DOCTRINA atque AUCTORITATE antea movebamur.
Itaque multa,
quae ab illis vel acute cogitata vel eleganter enuntiata sunt,
ad dolorem nostrum abstergendum colligemus;
ut si minus ceteros in tanto moerore delectare poterimus,
quod alias et dicendo describendoque efficere conati sumus
et fortasse interdum praestitimus,
SALTEM NOBIS IPSIS MEDEAMUR.
Voglio insistere ancora sul problema critico di questa Consolatio. Il Sigonius, al quale viene attribuito il plagio, si difende, sembra, a ragione; resta sempre pur vero che un falsario sarà anche capace di scrivere a sua difesa parole convincenti. Vi lascio perciò intatto il problema. Non senza farvi assaggiare quanto egli stesso scrive sull'impossibilità di inventare di sana pianta passaggi tanto ispirati: come questo che ora vi do in omaggio:
Nam quae de hominibus et virtutibus divino honore afficiendis scripta
sunt
ac magnificam illam et prope divinam Tulliae laudationem ac consecrationem
nemo certe tam varie, tam erudite ac tam diserte complecti potuisset,
nisi par ingenium, simile studium atque
eundem doloris atque acerbitatis in filiae morte sensum adhibuisset.
(quest'ultimo brano proviene dalla PERORATIO del Sigonius -1520-1584- come riportata dallo Springhetti nella sua Selecta Latinitatis Scripta, p.283).
CONSOLATIO, nn.188-190.
Nostra enim quae dicitur vita, mors est,
nec umquam vivit animus nisi, compage solutus corporis,
liber aeternitate potiatur (28).
Nisi si, quod mortem subsequitur, nos fortasse sollicitos habet.
De quo libet pauca dicere,
ne hic unus ad molestiam doloremque alendum angulus relinquatur.
Qui profecto insipientibus obiciendus non est,
nec in tanto argumentorum acervo,
quibus mortem ipsam nobis obstringere conamur, conitendum,
ut hoc uno nomine minus nobis debere videatur.
Quis est autem tam demens, ut quos
innocentia, liberalitate et singulari quadam ac praecipua virtute
DIIS PROXIMOS INTELLEGAT,
iis SEIUNCTUM A DIIS tribuendum LOCUM censeat ?
Et cum hominis animus terrena respuat, ad supera semper feratur,
qui non solum tacito naturae impulsu,
sed voluntate reque ipsa,
ut quam maxime caelestibus similes essent praestiterunt,
EOS... LICEBITNE CAELO ESSE PRIVATOS ?
Mihi vero eo iustius IN CAELO COLLOCATI VIDENTUR,
quo clarior eorum inter homines
vel eluxit liberalitas vel virtus enituit.
Quis enim Hercule fortius ?
quis prudentior ? quis ab omni cupiditate remotior ?
Quos ille labores, ut fortiter ageret et hominibus prodesset,
suscepit et pertulit !
aut quid non doloris et calamitatis exhausit !
Quis ergo hunc CAELO EXCLUDI patiatur,
cum eius virtuti
sempiterna gloria et laudis patuerit immortalitas ?
Eademque ceterorum condicio est:
quorum alius alio genere virtutis,
omnes summis et singularibus
vel in ipsos deos vel in homines meritis praestiterunt.
Itaque tam egregiis eximiisque factis
non infixas plumbo statuas,
non arescentes triumphorum coronas
satis diuturna persolvere posse praemia iudicatum est,
sed florentiora stabilioraque munera quaesita sunt,
quibus ornarentur ii
qui virtutem, honestatem, gloriam,
otio, libidini, voluptati, vitae denique PRAETULISSENT.
NOVEMBRE 2
La data di oggi mi suggerisce quanto sia opportuno ricordare, anche religiosamente, il grande Cicerone, senza perciò sbilanciarmi sulla pretesa di Erasmo, il quale in uno dei suoi Dialogi ipotizza perfino l'eventualità di canonizzarlo. Per la data della sua morte l'appuntamento è al 7 dicembre. Ora voglio soltanto ricordare che una delle sue ultime soste (anzi partenze rientrate, perchè il Tirreno era proibitissimo in quei fatali giorni), lo vede proprio ad Astura. Dove, qualche anno prima, dopo la morte dell'adorata figliola, Cicerone si era ritirato per quella sua traumatica purificazione, nel dolore e nella sofferta rilettura dei "grandi".
Troverete in data 30 novembre altri particolari di quella crisi che io definisco come "la catarsi di Astura". Qui Vi lascio il suggerimento, nonchè desiderio personale, che si faccia qualcosa affinchè quei luoghi, oggi pressochè irraggiungibili per via di un INVALICABILE militare, possano diventare una ambita e accessibile sosta per gli amanti di Cicerone e della lingua latina, che egli elevò ai più alti livelli dell'umana perfezione. Mi raccomando, non vorrei essere frainteso, come se questa pagina volesse essere un manifesto a favore della cementificazione della zona a scopo turistico. Quello che va difeso è il silenzio della natura e l'offerta di un luogo suggestivo, consacrato da una maturazione umana che appartiene alla nostra storia. E vi ricordo il motivo esplicito: In hac solitudine careo omnium colloquio; cumque mane me in silvam abstrusi, densam et asperam, non exeo inde ante vesperum" (Ad Atticum, XIII,15).
Vivo è da quelle stesse parti il ricordo di Maria Goretti e del suo ideale sacrifizio, che profuma tutta la zona: ma nessuno potrà offendersi se a qualche altro piace di pregare o meditare la problematica eterna del uomo, così come la sentiva Cicerone, che in questo caso sembra un nobilissimo precristiano, per il quale, se il CIELO esiste, esiste pure un INFERNO, il quale ovviamente non è nè quello di Virgilio, nè quello del Dante o del Signorelli; l'arte ha una sua libertà che non è necessariamente teologia !
Incerti Auctoris (?) CONSOLATIO (190-192)
Tamque id aequum est,
quam illud decorum maximeque probandum
NON EASDEM improbis sedes, quam bonis atque integris
post mortem esse propositas.
Intellexerunt enim ex maioribus nostris complures,
qui sapientia praestiterunt,
cum in diis aequitas praecipue vigeat
eaque in eorum gubernatione appareat maxime,
fieri non posse quin nequitiam sceleraque
AVERSENTUR,
quique ea in vita exercuerunt,
eos a se ipsis LONGISSIME seiungant.
Quod in vulgus edi verumque exsistimari
non modo rationi conveniens,
sed utile quoque imprimis est futurum.
Nam si quid in hominum animis pietatis,
si quid religionis inerit,
certe ob hanc potissimum causam
se a flagitiis ac facinoribus abstinebunt,
quod impios ac nefarios homines
A DEORUM CONCILIO AC SOCIETATE ARCERI iudicabunt.
NEC ENIM OMNIBUS iidem illi sapientes arbitrati sunt
EUMDEM CURSUM IN CAELUM PATERE.
Nam vitiis et sceleribus contaminatos,
deprimi in tenebras atque in caeno iacere docuerunt.
Castos autem animos, puros, integros, incorruptos,
bonis etiam studiis atque artibus expolitos,
leni quodam ac facili lapsu
AD DEOS,
id est, ad naturam sui similem pervolare.
Quod si ita est, certe nobis,
quantum conniti animo possumus,
quantum diligentia consequi,
contendendum atque elaborandum est
ut ne ab iis segregemur
quorum est proprium VITA FRUI SEMPITERNA ET BEATA.
Quod efficere qui voluerit
(omnes autem velle debebunt,
qui se ipsos diligere convenienterque naturae volent vivere)
numquam committet ut,
quae ceteris exitiosa fore crediderit, ea ipse persequatur !
NOVEMBRE 3
E` ben noto ad ogni studioso del mondo classico quanto sia portante il ruolo del CORO nella tragedia greca. Ad esso sembra sia riservato far emergere dal profondo di ogni uomo, per proclamarle enfaticamente senza ritegno, le domande più inquietanti della nostra esistenza, le critiche che il convenzionalismo sociale ci obbliga a soffocare, i dolori più indefinibili, i sospetti più geniali; magari le invereconde proteste, forse anche blasfeme, che il "senso tragico della vita" ci spinge a gridare in faccia agli dèi.
Seneca ci prova ad imitare i Greci anche in questo campo minato e, non sappiamo se per convincimento esterno oppure per convenzione letteraria, affida ai cori delle sue tragedie questa che era nei tempi antichi la voce più libera della sensibilità umana.
Uno di questi cori, che avevo precedentemente predestinato per queste pagine per il suo sorprendente e cupo colore, nonché per la sua profondità umana ed eterna, lo trovai inaspettatamente scelto per un saggio drammatico della Festa del Latino, che ogni anno organizza nel Palazzo della Cancelleria la vaticana LATINITAS. L'anno 88 si volle affidare un pezzo di bravura al Gruppo Drammatico Giovanile A.R.I.S.T.A., il quale presentò, nell'originale latino e con meritevole impegno e dignità, una HECUBA, ricavata da tre lunghi passaggi delle TROADI di Seneca.
Orbene, il pezzo (in se stesso dissacrante, sebbene comprensibile in bocca a quelle donne, partenti per l'esilio) era questo coro che, proposto qui ad una attenta rilettura, colpirà non poco quei lettori che sapranno misurare il contrasto tra le bellezze letterarie e il cupo nichilismo che in esso si professa riguardo all'inquietante ed eterno problema della nostra sopravvivenza, della fede in un indescrivibile aldilà: se aldilà c'è soltanto il NULLA !
Non voglio credere che queste espressioni (le ultime sono al limite della bestemmia) traducano le vere idee di Seneca: non sarà difficile ritrovare il suo vero e personale pensiero, esposto in momenti meno legati alla convenzione letteraria. Qui sarà anche vanto suo aver saputo dare una limata e perfettissima forma a questo dilacerante grido, col quale si sfogano i suoi personaggi tragici, le disperate donne di Troia, le quali, dopo aver assistito al doppio massacro di Astianatte e Polissena, stanno per avviarsi, prigioniere, verso un ignoto futuro.
(Per la vera "fede" di Seneca sull'immortalità,
vedere il 13-14 nov.)
SENECA, Troades, 361-408
Verum est an timidos fabula decipit
ANIMAS corporibus VIVERE conditis ?
Cum coniunx oculis imposuit manum,
supremusque dies solibus obstitit
et tristis cineres urna coercuit,
num prodest animam tradere funeri
sed restat miseris vivere longius ?
An toti morimur nullaque pars manet
nostri, cum profugo spiritus halitu
immixtus nebulis cessit in aëra
et nudum tetigit subdita fax latus ?
Quidquid sol oriens, quidque et occidens
novit, caeruleis Oceanus fretis
quidquid bis veniens et fugiens lavat,
AETAS PEGASEO CORRIPIET GRADU !
Quo bis sena volant sidera turbine,
quo cursu properat volvere saecula
astrorum dominus, qui properat modo
obliquis Hecate currere flexibus:
HOC OMNES PETIMUS FATA, NEC AMPLIUS
IURATOS SUPERIS QUI TETIGIT LACUS
USQUAM EST.
Ut calidis fumus ab ignibus
vanescit, spatium per breve sordidus;
ut nubes, gravidas quas modo vidimus,
arctoi Boreae disicit impetus;
SIC HIC, quo regimur, SPIRITUS EFFLUET !
Post mortem NIHIL est: ipsaque mors NIHIL,
VELOCIS SPATII META NOVISSIMA !
Spem ponant avidi, solliciti metum:
TEMPUS NOS AVIDUM DEVORAT ET CHAOS !
Mors individua est, noxia CORPORI
nec parcens ANIMAE. Taenara et aspero
regnum sub domino, limen et obsidens
custos non facili Cerberus ostio...
RUMORES VACUI VERBAQUE INANIA
ET PAR SOLLICITO FABULA SOMNIO !
Quaeris quo iaceas post obitum loco ?
QUO NON NATA IACENT !
NOVEMBRE 4
CICERONE, Consolatio, 72-74
__________
Questa volta però, non essendo richiesta altra introduzione per la pagina ciceroniana annunziata, mi impadronisco dello spazio libero per offrirvi una pagina fuori contesto; meglio, FUORI SERIE. Di che si tratta? Di una DEDICA che... non c'entra per niente con l'immortalità dell'ANIMA, ma soltanto con l'immortalità del LATINO.
Essa proviene da un libricino anonimo, anzi dalla sua prefazione ugualmente anonima. All'editore è bastata la qualità del suo latino per entusiasmarsene. Può capitare a chiunque ! Il libro porta la data del 1789, ed è stampato IN FANO S.MARTINI. Prendetelo come una esternazione generosa di chi si sente tradito da una qualsiasi di quelle delusioni trascendenti che ogni tempo forzatamente dovrà ingoiare. Ma... la sua logica funziona !
Quamobrem dignam iudicavi quae in publicum prodeat,
atque hoc imprimis tempore, quo
LINGUA HAEC PRETIOSA in neglectum abit ac fere intercidit;
quamquam nunc, aeque atque in praecedentibus saeculis,
COMMUNIS ERUDITORUM SERMO PERSISTERE DEBERET.
Quid enim pluribus nationibus
tam longo locorum intervallo disiunctis
tamque multiplici idiomatum genere discrepantibus
OPTATIUS ESSE POTEST quam in stadio litterario
una aliqua communique lingua coniungi ?
Mihi legenti nihil profecto accidit iucundius
quam versare librum LATINUM
casto tersoque ac eleganti stilo ornatum.
Che ve ne pare? Non vi sembra che queste parole siano state scritte con la visione chiara del crollo del muro di Berlino, della morte ufficiale del PCUS, da un'eventuale caduta della Borsa, o dalla Finanziaria... ?
_________
Rileggete il brano, e poi, cambiate canale, poichè siamo usciti dal seminato. Passate all'annunciata pagina odierna, che insiste ancora sulla problematica dell'immortalità dell'anima. Predisponete anche, e qui mi rivolgo principalmente alle lettrici, un po'di comprensione per Cicerone, perdonandogli quell'antitesi, oggi offensiva, tra virilem animum, femineam mollitiem. Qualche passo avanti riguardo alla mulieris dignitatem l'abbiamo saputo fare finalmente anche noi !
Non enim is ego sum,
qui animum simul cum homine interire putem,
tantumque mentis lumen, e divina natura delibatum,
posse extingui,
sed potius certo tempore emenso, AD IMMORTALITATEM REDIRE.
Quid autem hominem magis deceat
quam, tam multis tamque firmis rationibus nisum,
virilem animum retinere, femineam mollitiem exuere ?
Qui vero mortuos nimis lugent,
nec humanam condicionem
magno elatoque animo despicere possunt,
in eos illud probri plenum vere dicetur:
vos etenim iuvenes animum geritis muliebrem: illaque virgo viri.
Multae enim repertae feminae sunt,
quae in domestico luctu
singularem animi praesentiam ac magnitudinem praestiterunt.
Sed virilis fortitudo, ut libidini, sic dolori,
non aliter quam servo domina,
imperare debet, eamque coercere ac frangere,
tamquam vitiosam et imbecillam animi partem.
Quam si emergere patiatur,
se paullo altius efferre, non modo rationi praecurret,
sed etiam victrix in animo exsultabit.
Quo nihil homini turpius aut perniciosius
ne excogitari quidem possit.
Gorgias orator, iam aetate confectus et morti proximus,
rogatus num LIBENTER moreretur:
MAXIME VERO -inquit-
NAM TAMQUAM EX PUTRI MISERAQUE DOMO LAETUS EGREDIOR !
O virum egregium
dignumque cuius vigeat in omnium ore ac mente sententia.
Quid enim potuit praeclarius dicere ?
Cum mala, quae viventem pati necesse est, cogitaret,
miseriarum FINEM, quas moriens relinquebat,
adesse laetaretur ?
Sic par est loqui hominem, qui non libidine vexetur,
non voluptatis illecebris irretiatur,
nulli denique pareat cupiditati:
quae summa est ratio et sapientia,
humanae necessitati imperare,
non dolori cedere, non desiderio angi,
nihil denique humanum extimescere.
NOVEMBRE 5
Indubbiamente Cicerone sta APPROFONDENDO ad Astura quasi un unico punto: la sua fede nell'aldilà. E, come egli stesso ha detto in parole esplicite, sta lì rileggendo quanto di meglio ha potuto racimolare dei pensatori del passato per "consolare sè stesso"; (donde provengono con evidenza le eventuali dissonanze di stile di questi "appunti", che possono aver indotto a diffidare della vera paternità della sua CONSOLATIO !).
Perché Cicerone, che in altre sue opere ha sempre affermato una sua incrollabile fede nell'immortalità dell'anima, è ben consapevole che questa fede non è affatto "dogmatica", come può ben essere la nostra, poggiata saldamente nella così detta "rivelazione". Ogni "credenza" filosofica sarà sempre tentennante per natura sua, e questo ci spiega perché mai Cicerone si accanisca ad Astura a "riconfermare" con la lettura dei grandi, la propria "fede" filosofica. Sarà proprio questa tensione ciò che darà un più lampeggiante smalto alle sue nuovissime espressioni.
Potrà mancare in questo trattatello sconvolto quella insoppromibile e serena linearità, che è caratteristica permanente delle opere mature di Cicerone, ma secondo me, salvo meliori iudicio, è proprio in queste anomalie dove va riscontrata la sua autenticità.
CICERONE, Consolatio, 152-153
ANIMOS ENIM ESSE IMMORTALES,
NE DUBITANDUM MIHI QUIDEM VIDETUR.
Faciam autem non invitus,
ut sapientissimorum hominum percurram hac de re sententiam,
quando me in hunc locum deduxit oratio.
Neque vero haec ita disputanda censeo,
ut animos idcirco NON INTERIRE probari possit,
quod mortuorum corporibus
vis quaedam inesse veneratione digna putetur,
quae significare debeat non deleri morte animos,
sed immortalium animorum
veluti sepulcra quaedam, mortalia corpora fuisse.
Quasi non et maiora et firmiora multa suppetant,
quibus planum fieri possit,
qui animos simul cum corporibus interire contendat,
eum contra rationem, nulla nisum ratione pugnare.
Quod si auctoritas quaerenda sit,
quem graviorem nominare auctorem possum,
quam eum quem Apollo ipse sapientissimum omnium pronuntiavit ?
Cuius testimonium tale fuit,
ut divinos esse hominum animos,
et eos corpore solutos
in caelum remigrare, unde prius venissent,
in omni sermone asseveraret.
In quo cum philosophis illis consensit
quos quondam Italicos nominavit antiquitas,
maximeque nobiles iudicavit:
quorum semper constans fuit opinio
demitti animos e caelo, divinaeque mentis eos esse
non solum munus, sed etiam partem praecipuam ac propriam.
Quod si secus esse quisquam putet,
haud sane facile
quid multis et firmissimis in hanc sententiam argumentis
respondere possit inveniet.
Sic enim plane cognosci ac sensu ipso diudicari potest:
summam esse paeneque incredibilem in animis
celeritatem ac festinationem,
cuius ope, quae corpus
non modo certo mensium,
sed vix etiam annorum spatio perficere atque exsequi posset,
ea ipsi non modo semel puncto temporis percurrere,
sed etiam saepius excogitare
et repetere facillime queant...
NOVEMBRE 6
Mi son trovato di fronte ad una angosciosa alternativa. Per chi nella lettura di quest'Antologia è ormai giunto a queste date finali, sarà ancora gradita la sorpresa di imbattersi nella Prima Catilinaria? Non sarà questa una pagina da saltare ad occhi chiusi perchè saputa a memoria? Risolvo i miei dubbi a favore del SI e mi auguro che la nuova ed efficacissima disposizione dei testi diventi in ogni caso un'inedita causa di godimento... e di esclamazione: "Ma prima il Latino sembrava sempre difficile!".
Consentitemelo dire: un anniversario come questo, non lo potevamo saltare. QUELLA NOTTE Cicerone rischiò grosso, e il timbro caldo di questo latino arroventato vale la pena di risentirlo. Con gli antefatti però !
Cicerone, nell'inveire sul malcapitato Catilina, lo schiaccia con le accuse più precise: al V giorno prima delle Kalende di Novembre avevi fissato la strage degli optimates: ti smascherai a tempo di primato! Per il giorno delle Kalende preparavi l'assalto a Preneste: trovasti i blocchi stradali ch'io avevo predisposto...
Nihil agis, nihil moliris, nihil cogitas,
quod ego non modo non audiam,
sed etiam non videam planeque sentiam.
Ma il colpo trionfante di Cicerone è poter esibire al rallentatore la cronaca intera di QUELLA NOTTE. Come avrà fatto a procurarsi delle immagini così nitide in una notte tanto tenebrosa ? Si preparava anche allora il "verbale" dei conciliaboli e l'elenco dei cospiratori? A Cicerone niente è sfuggito: sembra possederne in fotocopia l'intero organigramma, con tanto di nomi e cognomi di chi avrebbe accettato ognuno dei ruoli...!
Voglio anche rivolgere una inquietante domanda a quanti sanno più di me. Quelle manliana castra ci sono state sempre spiegate come squadracce di un tale Manlio. Recentemente mi sono imbattuto, in letture a noi molto più ravvicinate, in una Villa Manliana dei Papi del Seicento, scenario di una sorta di carnascialesca gara di umanisti, che vi arrivano in un barcone (antenato dei carri di Viareggio?) trasformato per la bisogna in Monte Parnasso... e ho potuto indovinare che si trattava di una villa o tenuta "nella Magliana", a fianco della Via Portuense (ci si descrive perfino la presenza del Papa, sebbene dietro ad una tenda!). Non sarà stato anche questa "Magliana" il nascondiglio delle "brigate rosse catilinarie" ? Per capire la base di questo mio dubbio, vi sottolineo un rilievo importante: a Cicerone basta che tra lui e Catilina ci siano le MURA ! Quindi, non si nasconda in Toscana; si accontenta ch'egli sia fuori dal pomerium! o No?
CICERONE, adversus Catilinam, I oratio.
Recognosce tandem mecum noctem illam superiorem:
iam intelliges multo me vigilare acrius ad salutem
quam te ad perniciem reipublicae.
Dico te priori nocte
venisse inter falcarios -non agam obscure- in M.Laecae domum;
convenisse eodem complures eiusdem amentiae scelerisque socios.
Num negare audes ? Quid taces? Convincam si negas !
Video enim esse hic in senatu quosdam qui tecum una fuere !
O Dii immortales, ubinam gentium sumus ?
Quam rempublicam habemus? In qua urbe vivimus ?
Hic, hic sunt in nostro numero, Patres Conscripti,
in hoc orbis terrae sanctissimo gravissimoque consilio,
qui de meo nostrumque omnium interitu,
qui de huius Urbis, atque adeo Orbis terrarum, exitio cogitent.
Hosce ego video consul, et de republica sententiam rogo;
et quos ferro trucidari oportebat, eos nondum voce vulnero !
Fuisti igitur apud Laecam illa nocte, Catilina.
distribuisti partes Italiae;
statuisti quo quemque proficisci placeret;
delegisti quos Romae relinqueres, quos tecum educeres;
discripsisti Urbis partes ad incendia.
Confirmasti te ipsum iam esse exiturum;
dixisti paululum tibi esse etiam nunc morae
quod ego viverem...!
Reperti sunt duo equites romani qui te ista cura liberarent
et sese ILLA IPSA NOCTE, paulo ante lucem,
me meo in lectulo interfecturos pollicerentur.
Haec ego omnia vixdum etiam coetu vestro dimisso comperi.
Domum meam maioribus praesidiis munivi atque firmavi;
exclusi eos quos tu mane ad me salutatum miseras,
cum illi ipsi venissent quos ego iam multis ac summis viris
ad me id temporis venturos esse praedixeram.
Quae cum ita sint Catilina, perge quo coepisti.
Egredere aliquando ex Urbe. Patent portae. Proficiscere.
Nimium diu te imperatorem illa tua MANLIANA CASTRA desiderant.
Educ tecum etiam omnes tuos; si minus quam plurimos.
Purga Urbem !
Magno me metu liberabis,
dummodo inter me atque te MURUS intersit.
Nobiscum versari iam diutius non potes.
Non feram, non patiar, non sinam !
NOVEMBRE 7
Sento mio il dovere di riportare qui, dopo le non poche saporitissime pagine strappate precedentemente al Giannettasio, l'autoritratto che trovo tra le righe di chiusura del I capitolo delle Aestates Surrentinae (Ha raccolto le sue chiacchiere latine al ritmo delle 4 stagioni: Ver Herculanum, Aestates Surrentinae, Autumni Surrentini, Hyemes Puteolanae, con un primo e generale titolo, che tutto abbraccia: Annus eruditus ).
Dunque: sorprendiamolo quando, descritte le bellezze della Villa che i gesuiti avevano allora a Sorrento (oggi il medesimo posto è occupato dal Albergo Cocumella) e ascoltato il canorus Zephyrorum flatus qui, in arborum frondes allisus atque repercussus, certare cum avibus cantu videtur, egli predispone la camera fotografica per l'autoscatto e si mette in posa. Il risultato, in pagina. Come inquadratura, il Belvedere o Calopsis:
Est enim in ipsa collis crepidine Calopsis imposita
(liceat sic reddere quem vulgus Italorum
pulchrum prospectum - Belvedere- appellat).
Exhinc quaquaversus liber prospectus patet:
hic ergo iam defatigatus ad aspectum maris sub umbra sedere decrevi,
vel prospectu vel otio ad satietatem recreandus.
Atque haec est villa surrentina,
quae tum valetudinis tum studiorum causa me recipit aestate,
et quam longissime a curis segregatum tenet.
(Vi aiuterò per tre vocaboli che vi verranno incontro: ludere abaco sembra voler dire alle "dame"; latrunculis, agli scacchi; trudiculis è invece una parola che ci regala l'inattesa opportunità di scoprire un poco conosciuto aspetto di Sant'Ignazio. La parola (sfuggita al Forcellini) si ricollega a trudes: che sarebbero pertiche: quindi, al diminutivo potrebbero designare l'odierno billiardo; per il Maffei è chiara invece l'allusione alla mazza del cricket da tavolo... State ora a gustare questa simpatica sfida e vedrete che tutto quadra su Sant'Ignazio: vincitore ovviamente nel suo gioco, perché in palio c'è, nientemeno, un corso di Esercizi Spirituali !
Parisiis per jocum invitatus a nobili quodam,
velletne TRUDICULIS ludere (quibus in oblonga mensa
per angustum fornicem eburnea pila traicitur),
- Ego vero ludam -inquit Ignatius-,
- At enim qua sponsione -subicit ille- qui pecunia careas ?
Tum Ignatius:
- Hac sponsione -respondit- ut certo utique dierum numero
tibi deserviam: verumtamen, arbitratu tuo si tu viceris,
meo si superior ipse discessero... (Maffei, l.c., L.III, cap.V)
_________
GIANNETTASIO, Aestates Surrentinae, cap.I libri I
Hic me rusticantem saepiuscule amici,
modo e vicinis locis, modo Neapoli,
vel benevolentis oblectationis gratia conveniunt.
Ego illos pari cum humanitate tum vicissitudine officiorum,
excipio mensaque exhilaro,
quae quidem neque poculis obruatur,
neque ferculis lasciviat:
sed quae Platonicum philosophum condeceat.
Ne vero tempus totum
vel otio transigatur,
vel abaco et latrunculis trudiculisque conteratur
(nihil enim adeo mihi cordi est
quam tempus ne lacerent !)
eruditas confabulationes
vel inter epulas vel inter ambulandum habemus:
et has quidem
de rebus vel eruditis vel curiosis,
ut varia fert occasio et varius item genius amicorum.
Quas mox ego, post illorum discessum,
stilo facili et minime moroso in commentaria refero;
id vero post somnulum meridianum,
in quod tempus quae levioris sunt operae reicio.
Mane enim, cum vegetior est animus, mens expeditior,
maioribus operibus incumbo.
Haec vero commentaria,
quae SURRENTINAS AESTATES vocare placuit,
ut per successiva tempora illaborata exciderunt,
exponere visum est:
non quo velim illis
vel politioris styli vel reconditae eruditionis
mihi laudem comparare
(ita me dii ament ut ab hac sum maxime alienus,
quippe qui pulchre mihi ipsi notus !) sed,
natura enim impellimur ut prodesse velimus quamplurimis,
ut iuvenes nostros,
quos saepe verbis admonueram, exemplo nunc doceam:
NULLUM ESSE TEMPUS,
QUOD SINE ALIQUA EXERCITATIONE PRAETERIRE PATIANTUR.
Ita enim fiet ut cùm erudiores, tùm probiores
maximo vel privato vel publico bono
quam facile evadant;
quod si obtinuero,
magnum me suscepti laboris fructum
consecutum esse arbitrabor.
NOVEMBRE 8
Sorprendente pagina che mi affretto a regalare ai giovani... che non sempre si troveranno sincronizzati con questa lunghezza d'onda. A Seneca, che la MORALITA` intende in tutta la sua ampiezza, senza ridurla al solo spazio della sessualità, sfugge un asserto provocatorio che vi aggredisce fin dalle prime righe: dissacrante perfino per la gloria, per noi intoccabile, di Cristoforo Colombo! Di buon sicuro, egli sta vedendo in prima fila Nerone e qualche sua pazzia, ma la MORALE è uguale per tutti !
SENECA, Quaestiones Naturales, III, 10 ss.
QUID PRAECIPUUM IN REBUS HUMANIS EST ?
Non classibus maria complesse,
nec in Rubri Maris litore signa fixisse,
nec, DEFICIENTE AD INIURIAS TERRA,
ERRASSE IN OCEANO IGNOTA QUAERENTEM,
sed animo omne vidisse et,
qua maior nulla victoria est, vitia domuisse.
Innumerabiles sunt qui POPULOS, qui URBES habuerunt in potestate;
paucissimi qui SE.
QUID EST PRAECIPUUM ?
Erigere animum supra minas et promissa fortunae;
nihil dignum putare quod speres.
Quid enim habes quod concupiscas?
Qui a divinorum conversatione quotiens ad humana recideris
non aliter caligabis
quam quorum oculi in densam umbram ex claro sole redierunt.
QUID EST PRAECIPUUM ?
Posse laeto animo adversa tolerare.
Quidquid acciderit, sic ferre quasi tibi volueris accidere.
Debuisses enim velle, si scisses omnia ex decreto Dei fieri:
flere, queri, et gemere desciscere est.
QUID EST PRAECIPUUM ?
Animus contra calamitates fortis et contumax,
luxuriae non aversus tantum sed infestus,
nec avidus periculi nec fugax,
qui sciat fortunam non exspectare sed facere
et adversus utramque intrepidus inconfususque prodire
nec illius tumultu nec huius fulgore percussus.
QUID EST PRAECIPUUM ?
Non admittere in animo mala consilia,
puras ad Deum manus tollere,
nullum bonum petere quod,
ut ad te transeat, aliquis dare debet, aliquis amittere;
optare quod sine adversario optatur, BONAM MENTEM.
Cetera, magno aestimata mortalibus,
etiam si quis domum casus attulerit,
sic intueri quasi exitura qua venerint.
QUID EST PRAECIPUUM ?
Altos supra fortuita spiritus tollere,
HOMINIS meminisse ut,
sive felix eris, scias hoc non futurum diu,
sive infelix, scias hoc te non esse, si non putes.
QUID EST PRAECIPUUM ?
In primis labris animam habere;
haec res efficit, non ex iure Quiritium, liberum,
sed e iure naturae.
Liber est autem qui servitutem suam effugit;
haec est assidua et ineluctabilis
et per diem ac noctem aequaliter premens,
sine intervallo, sine commeatu.
Sibi servire gravissima est servitus.
Quam discutere facile est,
si desieris multa te poscere,
si desieris tibi referre mercedem,
si ante oculos et naturam tuam posueris et aetatem,
licet prima sit,
ac tibi ipse dixeris:
"Quid insanio, quid anhelo, quid sudo,
quid terram, quid forum verso ?
Nec multo opus est, nec diu".
Ad hoc proderit nobis inspicere rerum naturam.
Primo discedemus a sordidis.
Deinde animum ipsum, quo sano magnoque opus est,
seducemus a corpore.
Deinde in occultis exercitata subtilitas,
non erit in aperto deterior;
nihil est autem apertius
his salutaribus
quae contra nequitiam nostram furoremque discuntur,
quae damnamus nec ponimus.
NOVEMBRE 9
Questa volta però, il suo latino sarebbe quasi da bocciare. Risulterà digeribile perfino ai principianti. Sarà tuttavia utile l'informazione e gradita la sorpresa. Trattasi di un gesuita francese di cognome italiano, Francesco Rigordi, che nel 1643, a capo di un manipolo di confratelli, va in Persia alla ricerca di un regolare permesso per stabilire un centro di attività apostolica a Esfahan o Ispahan (oggi IRAN). Proprio lì andrebbe a morire, 17 anni dopo, nel 1660, quel gesuita avignonese, Alexandre de Rhodes, emulo delle geste del Saverio in tutto l'Oriente, particolarmente nel Vietnam. Ritorniamo però al Rigordi; sulla carta almeno, egli ci riesce a restare! e noi potremo così leggere il nulla osta, un documento di reboante stile aulico arabo, ma in un accettabile latino.
Soffermiamoci un tantino sull'antefatto. Il Rigordi, partito da Marsiglia, ci consegna al ritorno i suoi appunti di viaggio. Non contengono nessun pregio, nè sono pagine di tollerabile smalto latino. Anzi, sappiamo di lui che quando, alcuni anni più tardi, presenterà alla censura interna un suo saggio DE HISTORIA PERSICA, dovrà fare i conti con un puntiglioso censore che gli rifiuterà l'assenso con queste poco riguardose parole: Nimia continet superflua, et etiam insulsa et stylo peregrino. Chi firma questo perentorio divieto -ne abbiamo a Roma l'autografo- è nientemeno Claude la Colombière, per più secoli Beato, recentemente (31.V.1992) canonizzato.
Ritorniamo una seconda volta al malcapitato Rigordi; costui risale il Golfo Persico per lo Stretto di Ormuz e il porto di Bandar-Abbas. Poi, guidato da due diplomatici, della Polonia e della Francia, riesce a farsi udire da un giovanissimo Re: Is, viginti circiter annos natus, vultu benigno et verbis amicis hominem excipiens, de Rege ac regno Poloniae aliqua quaerit; tum de Christo interrogat... Per dirla in breve, tutto in perfetto ordine. Infatti, convocato alla corte dal MEHMONDAR (legatorum introductor), -era il 9 novembre 1646- costui,
Ubi illuxit, Patri gratulabundus postulata Rescripto concessa nunciat...
Deinde, eleganter a primario Regis scriba exaratum,
Diploma tradit, aureis characteribus
ad proludentia verba, et infra, ad Christi nomen, insignitum;
Regis tandem sigillo et THAMADAULET (Primarii Regni Administri)
annulo rite munitum.
Ora possiamo finalmente leggere il testo. Senza omettere però l'imbarazzante domanda: sapevano latino quei persiani? oppure si fecero aiutare dall'intraprendente Rigordi ?
RIGORDI FRANCISCUS, Peregrinationes Apostolicae...
Massiliae, 1652, pp.33-35.
DIPLOMA REGIS PERSARUM
pro MISSIONE Societatis Iesu
Aspahani et in locis eis circumiectis constituenda.
Ipse DEUS laudabilis: Imperium Deo.
O Mahomete! O Alí!
Cum Nobilissimus Regiae nostrae Personae Animus
vehementer ac sollicite
ad bonum omnium et singulorum promovendum propendeat,
et hoc tempore optimus sacerdos Christi, Pater Franciscus Rigordi
et socii ipsius ex Societate Maiestatis Iesu
in hanc Excelsam Aulam venerint
et facultatem sibi in hoc Regno,
ac praesertim in Regia ASPAHANI civitate
et in urbe IULSA habitandi postulaverint,
cumque praeterea Legatus Supremae Maiestatis
Sublimisque Gradus ac Eminentissimae Dignitatis
et Imperii Gloriae Operatoris Potentissimi
Excelsae Gloriae ac Dominii Excellentissimi
Domini inter Dominos FRANCOS
iustissimi Dominantium Dominatoris Regis POLONIAE,
in hanc Aulam Protectoris Mundi venerint,
petierintque ut praedictus Pater et Socii ipsius,
viri valde docti
et ad supradictum Excelsae Gloriae Regem pertinentes
id obtinerent, CONCEDIMUS.
Cum enim inter coronam nostram Supremae Famae
et Principes Francos Altae Gloriae
amicitiae nexus indissolubilis intercedat,
idcirco firmiter recipimus
ut in quocumque loco Aspahani et circuitus,
seu viciniae ipsius, prout ipsis Patribus libuerit,
habitent et in area empta aedes construant.
Prohibemus autem ne ullus sit
qui ipsis impedimentum aliquod afferat;
volumusque ut eis in summa libertate ac tranquillitate,
iuxta suum institutum vivere liceat,
possintque orare continue pro prosperitate nostra immutabili.
Et circa hoc Ministri nostri cum debita diligentia invigilent;
cumque Diploma istud sigillo nostro inclyto munitum sit,
vim atque authoritatem omnimodam illud habere faciant.
Datum ASPAHANI, anno Aerae millesimo sexagesimo primo,
Regni nostri quarto, in mense Scheual. BENE AC FELICITER !
(= 9 novembris, anno Christi 1646).
NOVEMBRE 10
Prenderemo oggi in considerazione la stessa pagina (latino d.o.c) che la Liturgia Horarum, antico Breviarium, propone ai sacerdoti come lettura per la giornata di oggi. La prima parte è proprio un insegnamento catechistico sul concetto (che molti crederanno sia una novità dell'ultimo Concilio) che tutti i Cristiani partecipiamo alla pari di un "sacerdozio regale". La terminologia non è ovviamente la stessa dei nostri recenti Sinodi, protesi più concretamente a quello che oggi si preferisce definire come "spirito associativo", ma è forse più ricca e più sfumata, malgrado la brevità del brano qui scelto.
Speriamo di poter aiutare la comprensione rinunciando, com'è nostro metodo, alla trascrizione "quadrangolare" dei testi, e punteggiando il pensiero a seconda del suo regolare deflusso.
Si tenga presente che San Leone, toscano di origine e detto IL GRANDE, tra gli altri motivi, per l'altezza oratoria del suo magistero, fu innalzato al Sommo Pontificato l'anno 440. Morì nel 461. Da certi passi di questo Sermone deduciamo sia esso stato composto per la Festa di San Pietro Apostolo, anniversario probabilmente della sua consecrazione: dies provectionis nostrae.
SAN LEONE MAGNO, Sermo 4, 1-2
(PL 54, 148-149)
Licet universa Ecclesia Dei
distinctis ordinata sit gradibus,
ut ex diversis membris
sacrati corporis subsistat integritas,
omnes tamen, sicut ait Apostolus,
IN CHRISTO UNUM SUMUS...
Omnes enim in Christo regeneratos,
CRUCIS SIGNUM efficit REGES,
SANCTI VERO SPIRITUS UNCTIO consecrat SACERDOTES.
Ut praeter istam specialem nostri ministerii servitutem,
universi spiritales et rationabiles christiani
agnoscant se
REGII GENERIS et SACERDOTALIS OFFICII esse consortes.
Quid enim TAM REGIUM
quam subditum Deo animum corporis sui esse rectorem ?
Et quid TAM SACERDOTALE
quam vovere Domino conscientiam puram
et immaculatas pietatis hostias de altari cordis offerre ?
Quod cum OMNIBUS per Dei gratiam commune sit factum,
religiosum tamen vobis atque laudabile est,
de die provectionis nostrae
quasi de proprio honore gaudere;
ut unum celebretur in toto Ecclesiae corpore
PONTIFICII SACRAMENTUM,
quod, effuso benedictionis unguento,
COPIOSIUS quidem in superiora profluxit,
sed NON PARCE etiam in inferiora descendit.
Cum itaque, dilectissimi,
de consortio istius muneris
magna sit materia communium gaudiorum,
verior tamen nobis et excellentior erit causa laetandi,
si non in nostrae humilitatis consideratione remoremini;
cum multo utilius multoque sit dignius
ad Beatissimi Petri Apostoli gloriam contemplandam
aciem mentis attollere,
et hunc diem in illius potissimum veneratione celebrare,
qui ab ipso omnium charismatum fonte
tam copiosis est irrigationibus inundatus,
ut cum multa solus acceperit,
nihil in quemquam
sine ipsius participatione transierit.
NOVEMBRE 11
E` questa una descrizione inaspettata, fornita dal già a noi noto Dobrizhoffer nel capitolo dedicato alle stranezze che nel campo medico gli è toccato di scoprire laggiù nel Sudamerica, nei 12 anni passati prima tra i Guaraní, in seguito altri 8 anni fra i più rozzi Abiponi. Si è trovato costretto a fare più di una volta da medico (essendo gli altri soltanto "medicastri"), e dopo che ci ha descritto la sue esperienze, difende la propria "invasione di campo" con questa ponderata giustificazione evangelica.
Divinus ipse Servator, cum in terris ageret,
in sui admirationem rapuit mortales,
quod non animis dumtaxat
sed et corporibus humanis mederetur.
Illius imitatione
quotquot barbarorum institutioni operam dedimus,
medicorum, chyrurgorum, pharmacopoeorum penuriam
maxima qua potuimus virium contentione
remediis parabilibus,
librorum medicorum lectione,
aliis quibusque industriis supplere conabamur,
ut miseram illam avitisque superstitionibus caecatam plebeculam
a praestigiatorum sinu abstraheremus,
quos religionis sanctae praecipuos obices
ubique gentium sumus experti.
Dopodiché può già dare il via a questa efficace descrizione riassuntiva; vedremo in essa quanto fosse progredita l'organizzazione sanitaria fra i Guaraníes, cioè in quei 32 villaggi quorum pleraque quattuor, alia sex vel septem incolarum milia numerant. I malati in degenza, come è facile indovinare, potevano essere allora intorno ai 30: triginta enim interdum, aliquando plures vel pauciores decumbunt.
DOBRIZHOFFER, Historia de Abiponibus II, 279
Incredibilis est
quae Quaranicis in oppidis gerebatur
aegrotantium cura.
Pro multitudine vel paucitate istorum,
plures paucioresve Indi
aegris curandis designabantur,
herbarum remediorumque familiarum cognitione aliqua imbuti,
quamvis iis haud liceat missionario non consulto
arbitrarias medicinas adhibere.
Baculum altum, cruce insignitum,
manu semper circumferunt
(curuzuyá, id est "crucem gerentes" vocantur propterea).
Illorum est sub auroram per plateas unicuique assignatas
totum obire oppidum,
aegros lustrare,
et, si quis recens in morbum inciderit, resciscere.
De his omnibus missionarius,
antequam sole exoriente, praesentibus omnibus, sacrificet,
edocetur,
et quibus remediis utendum,
quae sacramenta cuivis ministranda, significat.
Ipso meridie,
ex illius culina,
caro elixa cum pane ex flore farinae triticeae candidissimo
ad aegrotorum singulorum domos mittitur.
Aegri singuli semel cotidie
et pro morbi periculo saepius,
visitantur a missionario,
quem bini minimum pueri semper comitari solent.
Nihil prorsus,
quod aegrotorum seu animis seu corporibus conduceret
desiderari passi sumus unquam.
Quibus industriis id sane impetratum,
ut plurimi convalescerent:
ceteri vero,
quorum morbus medicinae vires superaverat,
sacris ad beatam mortem praesidiis tempestive muniti
nobisque saltem praesentibus,
vivere desinerent.
NOVEMBRE 12
Volendo oggi ricordare in una pagina l'incontro dei Príncipi Giapponesi con Filippo II a Madrid, un giorno come oggi, 12 nov. 1584 (un secondo incontro avrà luogo a Monzón, sulla via del ritorno da Roma a Lisbona), occorre dire nei termini piú schematici che lo incontrano immerso nella fastosa cerimonia dinastica del Giuramento di fedeltà dell'erede Filippo, ancora di 6 anni. Da questo punto, via alla pagina odierna:
Fuit equidem huius actus tanta celebritas
tam iucundumque spectaculum,
ut quinque horarum spatium, quod in eo consumptum est,
brevissimum temporis punctum nobis visum fuerit.
Tanta vero fuit hominum confluentia et multitudo,
ut difficillimum esset per mediam turbam confertissimam
in alteram partem progredi.
Tanta denique fuit Regis Principisque eo die
erga suos beneficentia munerumque distributio,
ut facile benevolentia propensaque voluntas
non tam imperandi quam de eis bene merendi intelligeretur...
A questo punto si inseriscono nel resoconto alcune riflessioni che mettono a paragone questa cerimonia con altre analoghe della loro cultura. Ma noi passiamo alla descrizione del giorno dopo, dedicato tutto quanto ai Legati Giapponesi. Peccato che non c'era ancora nè CANON nè POLAROID ! Avrebbero potuto fissare il sorriso di Filippo II !
Designatus fuit nobis sequens dies post Divi Martini festum,
pridie videlicet Idus Novembris (=12 nov.),
quo, iussu Philippi Regis, ad Ipsum introducti sumus,
vectique ad palatium lecticis curulibus quibus ipsemet utitur,
tanta hominum frequentia vicos plateasque occupante,
ut aegre aditus inveniri posset.
Cum vero ad Regem pervenimus, tam conferta fuit hominum multitudo,
ut vix ipsi regiorum magistratuum satellites iter nobis patefacerent.
Rex igitur in intimis domus regiae penetralibus,
ad quae post duodecim atria et cubicula ornatissima devenimus,
stans (ut cum Legatis agere solet)
et filio herede filiabusque comitatus,
nos accedentes perhumaniter hilariterque accepit.
Nec passus nos manus regias osculari,
benignissime amplexatus est,
quod et filius heres et filiae similiter praestiterunt.
EDUARDUS DE SANDE, De Missione Legatorum...
colloquium 18, pag.197 ss.
Tum Epistulas a Bungensi et Arimensi Regibus,
Omurensique Principe missas obtulimus...
Ille, auditis literis tum Iaponico tum Hispano sermone,
ad mandata hilari vultu respondit:
se Iaponenses Reges et Principes
eiusdem religionis iure sibi devinctos
novoque germanitatis nexu coniunctos,
in pectore impressos et insculptos habere,
laetarique summopere quod tales ac tam nobiles iuvenes
mutuae benevolentiae testes ad se misissent,
sperareque ut in posterum
huius consuetudinis iucundissimae usus
quotidie magis ac magis accresceret.
Post haec familiarius adhuc nobiscum egit,
multa de Iaponicis rebus interrogans,
vestes nostras studiosissime circumspiciens,
gladiosque iaponenses, quos ad latera accinctos habebamus,
e vaginis educens;
calceos denique ipsos eorumque formam avide considerans;
denique munera aliqua quae ipsi nostro nomine obtulimus,
libentissime accipiens,
eorumque ornatum et elegantiam multis verbis commendans.
Tanta vero fuit in omnibus his eius humanitas atque affabilitas,
ut etiam ipsi nobiles domesticique,
qui eius consuetudinem gravissime agendi optime norunt,
tantam in eo comitatem benignitatemque mirarentur,
affirmantes rarissime se Regem ad illam
hilaritatem remissionemque animi descendentem vidisse !
Eundem imitati sunt liberi qui praesentes aderant, ut dixi,
atque ita in omnibus ex ea regia et clara familia
summam humanitatem in nos experti sumus.
Erant aliae multae nobilissimae matronae,
quae nostri videndi studio flagrabant,
et inter eas illustrissima foemina, filia Ducis Averii,
qui inter Lusitanos dynastas ita generis claritate pollet,
ut cum maximo quoque de nobilitate contendat.
Rex igitur, illis satisfacere volens,
quaesivit an Vespertinas Preces
in suo sacello decantandas audire studeremus;
cumque nihil iucundius nobis evenire posse diceremus,
eo perreximus ubi preces
tanta cantus suavitate, tantaque organorum melodia recitatae sunt,
ut caeleste potius aliquid ac divinum
quam humano artificio compositum audire nobis persuaserimus.
NOVEMBRE 13
Proprio come mi ripromettevo! Al Seneca che, per bocca dei suoi personaggi tragici, lanciava senza reticenze quel dissacrante grido, che "dopo la morte c'è soltanto il nulla" (cf.pagina del 3 nov.), succede il vero Seneca, il filosofo che ragiona con la sua testa e che fruga nei più oscuri meandri della sua coscienza ALLA RICERCA DI UNA FEDE (sorpresa: ritrova anche la SPERANZA). Anzi un Seneca che confessa che stava proprio scoprendo il gusto di approfondire questo problema, quando gli è stata recapitata una lettera con delle bagatelle, che lo hanno risvegliato dal suo sogno !
Risuoneranno ora, da quella meditazione, delle mirabili espressioni, parallele, o quasi, a quelle del linguaggio liturgico cristiano: non siamo ancora esattamente al vita mutatur, non tollitur, ma è ugualmente valida la fede che ci descrive l'inizio delle vita eterna, entro una luce nuova, raggiunta attraverso un inaspettato "secondo parto".
Quomodo molestus est iucundum somnium videnti qui excitat
(aufert enim voluptatem, etiam si falsam,
effectum tamen vere habentem)
sic epistula tua mihi fecit iniuriam.
Revocavit enim me cogitationi aptae traditum
et iturum, si licuisset, ulterius:
iuvabat de aeternitate animarum quaerere, IMMO MEHERCULES CREDERE
!
Praebebam enim me facilem opinionibus magnorum virorum
rem gratissimam promittentium magis quam probantium.
Dabam me SPEI TANTAE:
iam eram fastidio mihi, iam reliquias aetatis infractae contemnebam,
in immensum illud tempus et in possessionem omnis aevi transiturus:
cum subito experrectus sum epistula tua accepta
et TAM BELLUM SOMNIUM perdidi !
Si sofferma poi Seneca su alcuni dei punti tematici che Lucilio gli ha esposto: cavilli dialettici e problematica a vuoto! Anzi, con quel tipo di filosofia, altro non facciamo se non implicare sempre di più i contorti e labirintici percorsi che sono il pasto dell'ANIMUS HUMANUS, qui sibi ipse flexus disponit, quos cum magna molestia debeas relegere !
E`qui la prima intuizione: Seneca riscopre che la vera partenza filosofica va posta in una totale immersione dell'uomo nell'universo; Dic potius quam naturale sit in immensum mentem suam extendere! Proprio quello, cui si accennava qualche giorno fa: cultura universitaria, cioè, non soltanto di qualità, ma aperta all'universalità dell'intricata problematica soggiacente al mistero, dell'uomo e di Dio ! Gioverà ripeterci qui quella sua favolosa scoperta: Quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit !
SENECA, Ad Lucilium, 102.
Magna et generosa res est humanus animus:
nullos sibi poni,
nisi COMMUNES ET CUM DEO terminos patitur.
Primum humilem non accipit patriam,
Ephesum aut Alexandriam
aut si quod est etiamnunc
frequentius accolis laetiusve tectis solum.
Patria est illi
quodcumque, suprema et universa, circuitu suo cingit HOC OMNE CONVEXUM,
intra quod iacent maria cum terris,
intra quod aër, humanis divina secernens,
etiam coniungit,
in quo disposita tot lumina in actus suos excubant.
Deinde ARCTAM AETATEM sibi dari non sinit:
"Omnes -inquit- anni mei sunt:
nullum saeculum magnis ingeniis clusum est,
nullum non cogitationi pervium tempus.
Cum venerit dies ille,
qui mixtum hoc divini humanique secernat,
CORPUS... hic ubi inveni relinquam;
IPSE ME DIIS REDDAM !
Nec nunc sine illis sum,
sed gravi terrenoque detineor".
Per has mortalis aevi moras
illi MELIORI vitae LONGIORIque proluditur.
Quemadmodum enim decem mensibus
tenet nos maternus uterus
et praeparat non sibi
sed illi loco in quem videmur emitti
iam idonei spiritum trahere et in aperto durare,
sic per hoc spatium,
quod ab infantia patet in senectutem,
IN ALIUM MATURESCIMUS PARTUM !
ALIA ORIGO nos expectat,
ALIUS RERUM STATUS.
Nondum caelum nisi ex intervallo pati possumus.
Proinde intrepidus illam HORAM DECRETORIAM prospice.
Non est ANIMO suprema, sed CORPORI.
Quidquid circa te iacet rerum,
tamquam HOSPITALIS LOCI SARCINAS specta.
Transeundum est !
NOVEMBRE 14
Avevo quasi deciso di congedare a questo punto il nostro Seneca, perchè in realtà ci ha già dato quella confessione esplicita della sua fede nell'immortalità, ma non resisto a inoltrarmi nella stessa lettera fino a offrirvi le bellissime espressioni nelle quali egli intravede la necessaria metamorfosi che in noi si dovrà verificare. L'uomo dovrà PERDERE nel trapasso LA SUA CORPOREITA`, e soltanto allora si troverà attrezzato per quella grande immersione nel divino (nella LUCE che con esso si identifica, secondo la tradizionale espressione degli stoici, che serve poi in pieno a San Giovanni, e con lui, a tutta la riflessione cristiana). Per la quale, ma anche per Seneca, quell'hora decretoria sarà conseguentemente il momento felice di ogni larva, che diventa crisalide per iniziare una vita superiore. Concetto superbamente cesellato dall'Alighieri:
Non v'accorgete voi che noi siam vermi,
nati a formar l'angelica farfalla,
che vola alla giustizia senza schermi ?
(Purgat. X 124)
Certo non potremo mai dire di aver trovato in Seneca la definitiva formulazione della fede nell'immortalità dell'anima. Questa realtà sarà sempre superiore ad ogni linguaggio umano, e nemmeno il Cristianesimo rischierà di dire in termini umani quale sarà la concreta portata di quella ineffabile trasformazione, alla quale si accontenta di applicare un'arcana definizione negativa che in genere serve per tutto il mondo misterioso di Dio, che ancora non siamo capaci di chiarire in parole "nostre":
Sapientiam autem loquimur inter perfectos,
sapientiam vero non huius saeculi
neque principum huius saeculi, qui destruuntur,
sed loquimur Dei sapientiam in mysterio...
Quod oculus non vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit,
quae praeparavit Deus his qui diligunt illum. (1 Cor 6 ss).
Tuttavia Seneca indovina felicemente per noi, nel definire quel trapasso che radicalmente ci trasforma, la consolante formula cristiana, secondo la quale il DIES MORTIS è in realtà un DIES NATALIS ! Anzi, con puntigliosa precisione: Illa... dies AETERNI NATALIS est !
Non saprei dirvi quanti specialisti di Seneca siano riusciti a leggere questa PAGINA senza uscirne travolti. A me è venuta la vertigine, particolarmente dopo la frase, da brivido, che descrive la nostra immersione definitiva in Dio, con la scenografia sublime delle galassie "illuminate a festa" Quantus ille fulgor, tot sideribus inter se lumen miscentibus !!!
SENECA, Ad Lucilium 102
Excutit REDEUNTEM natura sicut INTRANTEM.
Non licet plus efferre quam intuleris,
immo etiam ex eo quod ad vitam attulisti, pars magna ponenda est.
Detrahetur tibi haec circumiecta
(novissimum velamentum tui) CUTIS.
Detrahetur CARO et suffusus SANGUIS discurrensque per totum.
Detrahentur OSSA NERVIque, firmamenta fluidorum ac labentium.
Dies iste, quem tamquam extremum reformidas,
AETERNI NATALIS EST. Depone onus !
Quid cunctaris, tamquam non prius quoque,
relicto in quo latebas corpore, exieris ?
Haeres, reluctaris: tum quoque magno nisu matris expulsus es.
Gemis, ploras: et hoc ipsum flere nascentis est,
sed tum debebat ignosci: rudis et imperitus omnium veneras.
Ex maternorum viscerum calido mollique fomento emissum,
afflavit aura liberior; deinde offendit durae manus tactus.
Tenerque adhuc, et nullius rei gnarus, obstupuisti inter ignota.
Nunc tibi non est novum separari ab eo cuius ante pars fueris !
Aequo animo membra iam supervacua dimitte,
et istud corpus inhabitatum diu pone: scindetur, obruetur, abolebitur.
Quid contristaris ? ita solet fieri:
pereunt tempore velamenta nascentium.
Quid ista sic diligis, quasi tua ?
Istis OPERTUS ES: veniet qui te revellat dies
et ex contubernio foedi atque olidi ventris educat.
Hinc nunc quoque tu, quantus potes, subsili
voluptatique, nisi quae necessariis rectisque cohaerebit, alienus
iam hinc altius aliquid sublimiusque meditare:
aliquando NATURAE tibi arcana retegentur,
discutietur ista caligo, te LUX UNDIQUE CLARA percutiet.
Imaginare tecum quantus ille sit fulgor,
tot sideribus inter se lumen miscentibus.
Nulla serenum umbra turbabit:
aequaliter splendebit omne coeli latus:
(dies et nox aëris infimi vices sunt).
Tunc in tenebris vixisse te dices,
cum totam lucem et totus aspexeris,
quam nunc per angustissimas oculorum vias obscure intueris,
et tamen admiraris illam iam procul.
Quid tibi videbitur DIVINA LUX, cum illam suo loco videris ?
HAEC COGITATIO nihil sordidum animo subsidere sinet,
nihil humile, nihil crudele...
NOVEMBRE 15
Finita la Seconda Guerra Punica, l'apparato di grande potenza che Roma ha dovuto costruirsi per tenere a bada Annibale, trova altro scenario, trascurato prima per quelle stesse circostanze: il BELLUM MACEDONICUM; spadroneggia da quelle parti uno dei tanti Filippi, ma Roma, in quattro-cinque anni, lo ridimensiona. E' a questo momento quando scatta, nel pienone dello stadio di Corinto, nell'apertura dei GIUOCHI ISTMICI, l'inaspettato annuncio: Roma, per la persona del giovanissimo capo delle sue legioni, Tito Quinzio Flaminino (33 anni), proclama che finalmente "è scoppiata" la LIBERAZIONE.
Ci sarà da domandarci, come mai una pagina così smagliante sembrerà a voi, come è sembrata a me, assolutamente inesplorata?
Per inquadrarvela nella sua giusta dimensione mi risulta commoda una citazione dalla Storia di Roma di Montanelli: "Flaminino non uccise Filippo, anzi lo rimise sul trono nonostante le proteste dei suoi alleati greci... Poi, in occasione dei grandi Giuochi Istmici, proclamò che tutti i suoi popoli e città erano liberi, non più soggetti nè a guarnigione nè a tributi, e potevano governarsi con le proprie leggi. Gli ascoltatori, che si aspettavano la sostituzione del giogo macedone per quello romano, rimasero sbalorditi".
Il resto a voi. Io, contento di essere stato colpito da questa esaltante pagina storica, vi pago un posticino... nello stadio di Corinto !
Post paucos dies decem legati ab Roma venerunt,
quorum ex consilio PAX data Philippo in has leges est:
"Omnes Graecorum civitates quae in Europa quaeque in Asia essent,
libertatem ac suas leges haberent.
Quae earum sub ditione Philippi fuissent,
praesidia ex his Philippus deduceret;
iis quae in Asia essent,
Euromo, Pedasisque et Bargyliis et Iasso et Myrina et Abydo,
et Thaso et Perintho, eas quoque PLACERE LIBERAS ESSE.
De Cianorum libertate Quintius Prusiae, Bythinorum Regi, scriberet,
quid Senatui et decem legatis placuisset.
Captivos transfugasque reddere Philippum Romanis,
et naves omnes tectas tradere;
quin et regiam unam, inhabilis prope magnitudinis,
quam sexdecim versus remorum agebant.
Ne plus quingentis armatorum haberet, neve elephantum ullum.
Bellum extra Macedoniae fines ne iniussu Senatus gereret.
Mille talentum daret Populo Romano:
dimidium praesens, dimidium pensionibus decem annorum."
Valerius Antias
quaternum millium pondo argenti vectigal in decem annos,
triginta quaterna millia pondo et ducenta,
praesens viginti millia pondo.
Idem nominatim adiectum scribit,
ne cum Eumene Attali filio (novus is tum Rex erat) bellum gereret.
In haec obsides accepti, inter quos Demetrius, Philippi filius.
Adiicit Valerius Antias,
Attalo absenti Aeginam insulam elephantosque dono datos,
et Rhodiis Stratoniceam Cariae atque alias urbes quas Philippus
tenuisset;
Atheniensibus Insulas datas Paron, Imbrum, Delum, Scyrum.
Omnibus Graeciae civitatibus hanc pacem approbantibus,
soli Aetoli id decretum decem legatorum clam mussantes carpebant:
"Litteras inanes, vana specie libertatis adumbratas esse.
Cur enim alias Romanis tradi urbes, nec nominari eas,
alias nominari et sine traditione iuberi liberas esse?
Nisi ut quae in Asia sint, liberentur, longinquitate ipsa tutiores!
Quae in Graecia sint, ne nominatae intercipiantur,
Corinthus, et Chalcis et Oreum cum Eretria et Demetriade."
Nec tota ex vano criminatio erat:
dubitabatur enim de Corintho et de Chalcide et Demetriade,
quia in senatusconsulto, quo missi decem legati ab Urbe erant,
ceterae Graeciae atque Asiae haud dubie liberabantur:
de his tribus urbibus legati, quod tempora reipublicae postulassent,
id e republica fideque sua facere, statuere iussi erant.
Antiochus Rex erat, quem transgressurum in Europam,
cum primum ei res suae placuissent, non dubitabant:
ei tam opportunas ad occupandum patere urbes nolebant;
Ab Elatia Anticyram cum decem legatis inde Corinthum traiecit.
Ibi consilia decem legatorum tractabantur.
Identidem Quintius "liberandam omnem Graeciam,
si Aetolorum linguas retundere, si veram caritatem, maiestatem
apud omnes nominis Romani vellent esse:
si fidem facere, ad LIBERANDAM GRAECIAM,
non ad transferendum a Philippo ad se imperium, se mare traiecisse."
Nihil contra ea de libertate urbium alii dicebant: ceterum
"ipsis tutius esse manere paulisper sub tutela praesidii Romani
quam pro Philippo Antiochum dominum accipi."
Postremo, ita decretum est:
"Corinthum redderetur Achaeis,
ut in Acrocorintho tamen praesidium esset;
Chalcidem ac Demetriadem retineri donec cura de Antiocho decessisset".
NOVEMBRE 16
La pagina gioiello, dopo l'inevitabile pesantezza dell'incorniciatura storica, sarà quella che ora avete aperto. La troverete piena di colore, nonché profumata di esultanza. Una di quelle pagine capaci da far riversare festosi cortei per i Fori Imperiali. Il bello poi spunterà dove meno pensavate: non nelle medaglie (i Giuochi in realtà si sono svolti marginalmente); il brivido di queste scene sarà quello delle grandi giornate storiche, che tutti abbiamo vissuto o commemorato dopo le squallide guerre o guerriglie dei nostri tempi. Ve lo dirò in confidenza: a me, questa pagina ha richiamato quell'altro valore di nobilissima umanità che risuona perfino nelle meste epigrafi dei nostri cimiteri di guerra: curati con amore in omaggio principalmente di quanti sono "caduti" (idealismo al 100%) per la libertà altrui! E per finire, dulcis in fundo, la coscienza Romana di appartenere, già allora! all'EUROPA. E'indubbiamente piacevole sentire, da un guerriero tanto arcaico da qualificarlo come "pleistoceno", una confessione così esplicita di europeismo.
ISTHMIORUM statum ludicrum aderat; semper quidem et alias frequens,
cum propter spectaculi studium insitum genti,
quo certamina omnis generis artium viriumque ac pernicitatis visuntur,
tum quia, propter opportunitatem loci,
per duo diversa maria omnium Graecorum undique conventus erat.
Sed exspectatione erecti
qui deinde status futurus Graeciae, quae sua fortuna esset,
alii non taciti solum opinabantur, sed sermonibus etiam serebant.
Romani ad spectaculum consederunt:
et praeco cum tubicine, ut mos est, in mediam arenam
unde solemni carmine ludicrum indici solet, processit:
et tuba silentio facto, ita pronuntiat:
SENATUS ROMANUS ET TITUS QUINTIUS IMPERATOR
PHILIPPO REGE MACEDONIBUSQUE DEVICTIS,
LIBEROS, IMMUNES, SUIS LEGIBUS ESSE IUBET
CORINTHIOS, PHOCENSES, LOCRENSESQUE OMNES, ET INSULAM EUBOEAM,
ET MAGNETAS, THESSALOS, PERRHAEBOS, ACHEOS, PHTHIOTAS.
Percensuerat omnes gentes quae sub ditione Philippi Regis fuerant.
Audita voce praeconis,
maius gaudium fuit quam quod universum homines caperent.
Vix satis credere se quisque audisse:
alii alios intueri, mirabundi velut somnii vanam speciem;
quod ad quemque pertineret, suarum aurium fidei minimum credentes,
proximos interrogabant.
TITO LIVIO, A.U.c. lib.XXXIII, Cap. XXX-XXXIII
Revocatus praeco,
cum unusquisque non audire sed videre libertais suae nuntium averet,
iterum pronunciare eadem.
Tum, ab certo iam gaudio, tantus cum clamore plausus est ortus
totiesque repetitus, ut facile appareret
nihil omnium bonorum multitudini gratius quam LIBERTATEM esse.
Ludicrum deinde ita raptim peractum est,
ut nullius nec animi nec oculi spectaculo intenti essent:
adeo unum gaudium praeoccupaverat omnium aliarum sensum voluptatum.
Ludis vero dimissis,
cursu prope omnes tendere ad imperatorem Romanum,
ut, ruente turba in unum, adire, contingere dextram cupientium,
coronas lemniscosque jacientium,
haud procul periculo fuerit.
Sed erat trium ferme et triginta annorum;
et cum robur iuventae, tum gaudium ex tam insigni gloriae fructu,
vires suppeditabant.
Nec praesens omnium modo effusa laetitia est;
sed per multos dies
gratis et cogitationibus et sermonibus revocata:
"Esse aliquam in terris gentem,
quae sua impensa, suo labore ac periculo
BELLA GERAT PRO LIBERTATE ALIORUM,
nec hoc finitimis aut propinquae vicinitatis hominibus,
aut terris continenti iunctis praestet;
maria traiciat, ne quod toto orbe terrarum iniustum imperium sit,
et ubique IUS, FAS, LEX, potentissima sint.
Una voce praeconis liberatas omnes Graeciae atque Asiae urbes !
Hoc spe concipere audacis animi fuisse;
ad effectum adducere, virtutis et fortunae ingentis !"
Secundum ista, iam Quintius et decem legati
legationes Regum, gentium civitatiumque audivere.
Primi omnium Regis Antiochi vocati legati sunt.
His eadem quae fere Romae erant verba sine fide rerum iactata;
nihil iam perplexe ut ante, cum dubiae res incolumi Philippo erant,
sed aperte pronuntiatum ut excederet Asiae urbibus,
quae aut Philippi aut Ptolemaei Regum fuissent;
abstineret liberas omnesque Graecas.
Ante omnia denuntiatum,
ne I N E U R O P A M
aut ipse transiret aut copias traiceret !
NOVEMBRE 17
Riprendiamo oggi il "ciclo di Alessandro", con 5 esclusive pagine che ben potremmo annodare alle altre 5 già ancicipate, nel mese di marzo.
Incominciamo dai necessari antefatti. E` noto che quasi tutte le precisazioni topografiche degli autori antichi sono messe in dubbio; a noi perciò serve a poco se il fatto sia accaduto apud Oxydracas, oppure apud Mallos. Fatto sta che nell'assedio di una a noi ignota città indiana, le cose non andavano per il verso giusto e c'era addirittura il rischio di un fuggi fuggi generale. Qui andrà inquadrata la prodezza personale di Alessandro; che apparirà ancora più documentata se premettiamo almeno le prime immagini di questo assedio.
Perventum deinde est ad oppidum Oxydracarum,
in quod plerique confugerant
haud maiore fiducia moenium quam armorum.
Iam admovebat Rex, cum vates monere eum coepit
ne committeret, aut certe differret, obsidionem!
vitae eius periculum ostendi !...
Censesne -Alexander inquit- tantas res
non pecudum fibras ante oculos habenti
ullum esse maius impedimentum quam vates, superstitione captus ?
Nec diutius quam respondit moratus
admoveri iubet scalas, cuntanctibusque ceteris, evadit in murum.
Angusta muri corona erat;
non pinnae, sicut alibi, fastigium eius distinxerant,
sed perpetua lorica obducta, transitum sepserat.
Itaque Rex haerebat magis quam stabat in margine,
clypeo undique incidentia tela propulsans.
Nam undique eminus ex turribus petebatur...
CURZIO, De rebus Alex. Magni
lib.IX, cc.XIV-XVI
Iamque laevam qua clypeum ad ictus circumferebat
lassaverat, clamantibus amicis ut ad ipsos desiliret,
stabantque excepturi,
cum ille rem ausus est incredibilem atque inauditam,
multoque magis ad famam temeritatis quam gloriae insignem.
Namque in urbem hostium plenam
praecipiti saltu semetipse immisit !
quum vix sperare posset
dimicantem certe et non inultum esse moriturum:
quippe antequam assurgeret opprimi poterat et capi vivus.
Sed forte ita libraverat corpus
ut se pedibus exciperet: itaque stans init pugnam.
Et ne circumiri posset fortuna providerat:
vetusta arbor haud procul muro ramos multa fronde vestitos
velut de industria Regem protegentes obiecerat:
huius spatioso stipiti corpus applicuit,
clypeo tela quae ex adverso ingerebantur excipiens.
Nam quum unum procul tot manus peterent
(nemo tamen audebat propius accedere),
missilia ramis plura quam clypeo incidebant.
Pugnabant pro rege primum celebrati nominis fama:
deinde desperatio, magnum ad honeste moriendum incitamentum.
Sed cum subinde hostis afflueret,
iam ingentem vim telorum exceperat clypeo;
iam galeam saxa perfregerant:
iam continuo labore gravia genua succiderant.
Itaque, contemptim et incaute
qui proxime steterant incurrerunt:
e quibus duos gladio ita excepit,
ut ante ipsum exanimes procumberent:
nec cuiquam deinde propius incessendi eum animus fuit:
procul iacula sagittasque mittebant.
Ille ad omnes ictus expositus,
aegre iam exceptum poplitibus corpus tuebatur:
donec indus, duorum cubitorum sagittam
(namque Indis ut antea diximus
huius magnitudinis sagittae erant) ita excussit
ut per thoracem paulum super latus dextrum
infigeretur.
Quo vulnere afflictus, magna vi sanguinis emicante,
remisit arma moribundo similis;
adeoque resolutus,
ut ne ad vellendum quidem telum sufficeret dextra...
NOVEMBRE 18
Quando Alessandro sta già arrivando alla Carmania, si trova dinanzi ad una difficile svolta; essendo personalmente più assetato di andare avanti che non di impigrire nel lavoro di consolidare le proprie conquiste, dovrà lasciare al governo dei nuovi avamposti un tale Sibirzio (Mennone era morto da poco), e chiarire contemporaneamente la dubbia fedeltà di un satrapa di nome Aspastes; ma costui era sospettato res novare voluisse dum in India Rex esset; era cioè un personaggio in odore di "golpe" !!
La pagina odierna vi darà ora la tattica di Alessandro su questo satrapa: Quem occurrentem, dissimulata ira, comiter allocutus dum exploraret quae delata erant, in eodem honore habuit. Cioè, preferì per il momento chiudere un occhio, e rimandare la condanna ad un "fax" che avrebbe inviato in seguito dalle avanguardie.
Vi rigalerò inoltre, poichè trovo lo spazio disponibile, quella critica, di tutt'altro colore, che su Alessandro ci ha tramandato Seneca (che poi sarà ripresa di nuovo in altra delle pagine successive, essendo una pesante esternazione contro Alessandro, Mario, Pompeo e anche Cesare): a voi ora questo che sarà un grosso boccone per la vostra "maturità".
Isti cum omnia concuterent, concutiebantur turbinum more,
qui rapta convolvunt sed ipsi ante volvuntur,
et ob hoc maiore impetu incurrunt,
quia nullum illis sui regimen est,
ideoque, cum multis fuerint malo,
pestiferam illam vim qua plerisque nocuerunt ipsi quoque sentiunt.
Non est quod credas quemquam fieri aliena infelicitate felicem;
omnia ista exempla quae oculis atque auribus nostris ingeruntur,
retexenda sunt et plenum malis sermonibus pectus exhauriendum:
inducenda in occupatum locum virtus,
quae mendacia et contra verum placentia exstirpet,
quae nos a populo, cui nimis credimus, separet
ac sinceris opinionibus reddat.
Hoc est enim SAPIENTIA, in naturam converti
et eo restitui unde publicus error expulerit.
Magna pars sanitatis est hortatores insaniae reliquisse
et ex isto coitu invicem noxio procul abiisse !
(Seneca ad Lucilium, 94)
CURTIO RUFO,
De rebus Alex. Magni, lib.IX, c.XXXIV
Igitur ut supra dictum est,
aemulatus patris Liberi non gloriam solum,
quam ex illis gentibus deportaverat,
sed etiam famam
(sive illud TRIUMPHUS fuit ab eo primum institutus,
sive bacchantium lusus)
statuit imitari,
animo super humanum fastigium elato.
Vicos per quos iter erat floribus coronisque sterni iubet;
liminibus aedium crateres vino repletos
et alia eximiae magnitudinis vasa disponit:
vehicula deinde constrata ut plures capere milites possent,
in tabernaculorum modum ornari;
alia candidis velis,
alia veste pretiosa.
Primi ibant amici et cohors regia,
variis redimita floribus coronisque;
alibi tubicinum cantus,
alibi lyrae sonus audiebatur:
item in vehiculis, pro copia cuiusque adornatis,
comessabundus exercitus;
armis quae maxime decora erant circumpendentibus.
Ipsum convivasque currus vehebat,
crateris aureis
eiusdemque materiae ingentibus poculis praegravis.
Hoc modo per dies septem bacchabundum agmen incessit;
parta praeda, si quid victis
saltem adversus comessantes animi fuisset;
mille hercule, viri modo et sobrii,
septem dierum crapula graves
in suo triumpho capere potuerunt !
Sed fortuna,
quae rebus famam pretiumque constituit,
hic quoque militiae probrum vertit in gloriam.
Et praesens aetas et posteritas deinde mirata est
per gentes nondum satis domitas incessisse temulentos:
barbaris, quod temeritas erat, fiduciam esse credentibus.
Hunc apparatum carnifex sequebatur:
quippe satrapes Aspastes,
de quo ante dictum est, interfici iussus:
adeo nec luxuriae quidquam crudelitas
nec crudelitati luxuria obstat.
NOVEMBRE 19
Se volessimo qui raccontare la morte di Alessandro con tutti i suoi particolari, avremmo bisogno di più pagine, non tutte ovviamente di prima scelta (oltre al fatto che il resoconto di Curzio, deficiente in questo punto, è integrato, chi sa con quali garanzie, dal solito Freinshemius). Non trovo quindi di meglio se non far ricorso allo stile telegrafico, per salvare almeno l'essenziale.
Incominciamo quindi dalle circostanze che precedono e inquadrano l'evento.
1) Si trovava allora Alessandro nella Media in quei fecondi Campi di Nisa, zona privilegiata per l'allevamento dei cavalli. I suoi fidi eseguirono il conteggio: più di 50.000, malgrado che l'abigeato, inevitabile conseguenza dello stato di guerra, avesse abbassato quel numero, che si ritiene fosse stato di tre volte tanto! Sed inter bellorum turbas maximam earum partem praedones abegerant.
2) In quella stessa zona venne incontro ad Alessandro un satrapa con 100 donne a cavallo, e ciò confermava forse la leggenda sulle Amazzone ! Sette giorni poi di marcia, e siamo a Ecbatana, capoluogo della Media.
E con ciò siamo già dentro della promessa pagina.
CURZIO RUFO, De rebus Aex. Magni lib.X
Septimis deinde castris Ecbatana attigit, Mediae caput.
Ibi solemnia diis sacrificia fecit ludosque edidit
et in convivia festosque dies laxavit animum,
ut mox in novorum operum curam atque ministeria
validior intenderetur.
Sed ista volventem velut iniecta manu FATUM alio traxit,
vitamque carissimo amicorum eius
nec multo post IPSI quoque extorsit.
Pueros in stadio certantes spectabat
cum nuntiatur deficere Hephaestionem,
qui morbo ex crapula contracto,
septimum iam diem decumbebat.
Exterritus amici periculo
statim consurgit
et ad hospitium illius celeriter pergit:
neque tamen prius eo pervenit
quam illum mors occupasset.
Id Regi omnium quae in vita pertulerat adversorum
luctuosissimum accidisse certum habetur,
eumque,
magnitudine doloris in lacrymas et lamenta victum,
multa animi de gradu deiecti argumenta edidisse.
Sed ea quidem varie traduntur.
Illud inter omnes constat,
ut quam decentissimas exequias ei duceret,
nec voluisse Ecbatanis sepeliri,
sed Babylonem, quo ipse concessurus erat,
a Perdicca deferri curasset,
ibique funus inaudito antehac exemplo
duodecim talentum millibus locavisse.
Per universum certe imperium lugeri eum iussit:
et ne memoria eius in exercitu exsolesceret,
equitibus queis praefuerat nullum praefecit ducem,
sed "Hephaestionis Alam" appellari voluit;
et quae ille signa instituisset, ea non immutari.
Funebria certamina ludosque
quales nunquam editi fuissent meditatus,
tria artificum millia coegit,
qui non multo post
in IPSIUS exsequiis certasse feruntur.
NOVEMBRE 20
Non siamo ancora alla fine. Dopo i funerali di Efestione,
Ut paulisper a luctu avocaret animum,
Alexander in Copssaeorum gentem expeditionem suscepit...
Hos igitur Alexander, bipartito agmine aggressus,
intra quadraginta dies perdomuit...
Motis inde castris,
ut militem expeditione recenti fessum reficeret,
lento agmine Babylonem procedebat...
Quando sta a trenta stadi dalla grande città, gli viene incontro Nearco. Si scherza disinvoltamente sui vaticini dei Caldei, che denunciavano fatale Babilonia, ma vi si entra con assoluta noncuranza dei cupi vaticini.
Post haec cupido incessit Regi
per Pallacopam amnem ad Arabum confinia navigandi.
Qui troverà modo di fondare, ai limiti dell'Arabia, una città ricovero, gradita offerta per quei Greci che, invecchiati nelle armi o invalidi di guerra, volessero rinunciare ormai al grande ritorno.
Egli invece rientra a Babilonia per una zona paludosa; e quando sta di nuovo scherzando sugli incredibili e superstiziosi ammonimenti dei Caldei, perde addirittura il diadema regale, impigliato nelle fronde di un albero e finito nell'acqua sottostante. Ci sarà ancora già in città un pranzone tra amici per il ritorno di Nearco, e (i particolari acquistano a questo punto il massimo interesse) quando già il Re sta per coricarsi, acconsente ancora ad un tale che insistentemente lo invita ad una "notte brava" di scatenata baldoria: obnixis precibus ut ad se comessatum veniret! Il resto in pagina.
______________
Per la data abbiamo varie versioni: il 28-30 del mese Daesius, cioè il 22-24 maggio. Anno, Olimpiade CXIV. Anni 33 e rotti. Re della Macedonia da anni più di 12. Settimo anno dopo la morte di Dario. Del nostro calendario, 323 a.C...
CURZIO RUFO, De rebus Alex. Magni, lib.X, c.XI-XII
Iamque cubitum iturus erat, cum
Medii Larissaei obnixis precibus dedit
ut ad eum comessatum veniret.
Ubi postquam tota nocte perpotasset, male habere coepit.
Ingravescens deinde morbus
adeo omnes vires intra sextum diem hausit
ut ne vocis quidem potestas esset.
Interea milites solicitudine desiderioque eius anxii,
quamquam obstestantibus ducibus
ne valetudinem Regis onerarent,
expresserunt ut in conspectum eius admitterentur.
Intuentibus lacrymae obortae
praebuere speciem iam non Regem,
sed funus eius visentis exercitus.
Moeror tamen circumstantium lectum eminebat;
quos ut Rex aspexit:
INVENIETIS -inquit- CUM EXCESSERO DIGNUM TALIBUS VIRIS REGEM ?
Incredibile dictu audituque:
in eodem habitu corporis in quo se composuerat
quum admisssurus milites esset
durasse donec a toto exercitu illo ad ultimum persalutatus est !
Dimissoque vulgo, velut omni vitae debito liberatus,
fatigata membra reiecit:
propiusque adire iussis amicis
(nam et vox deficere iam coeperat)
detractum anulum digito, Perdiccae tradidit:
adiectis mandatis
ut corpus suum ad Hammonem ferri iuberet.
Quaerentibus his cui relinqueret regnum, respondit:
EI QUI ESSET OPTIMUS.
Ceterum providere iam ob id certamen
magnos funebres ludos parari sibi.
Rursus Perdicca interrogante
quando caelestes honores haberi sibi vellet, dixit:
TUM VELLE QUUM IPSI FELICES ESSENT.
Suprema haec vox fuit Regis, et paulo post extinguitur.
Ac primo ploratu lamentisque et planctibus
tota regia personabat:
mox, velut in vasta solitudine,
omnia tristi silentio muta torpebant:
ad cogitationes
QUID DEINDE FUTURUM ESSET,
dolore converso...
NOVEMBRE 21
E` sembrato universalmente incredibile che Alessandro sia morto a soli 33 anni ! Ed è bastata questa sua vertiginosa vita per concedergli, senza una doverosa e proporzionata critica, un giudizio ammirativo. Solo la Bibbia saprà stare ai dati puramente obiettivi e ricorderà schiettamente il suo passaggio meteorico, senza giudicarlo: una sola e lapidaria costatazione: Siluit terra in conspectu eius! Il giudizio di Curzio è retorico, nè poteva non esserlo, ma ricco di sfumature; implicito, del resto, nell'andamento narrativo dei suoi dieci libri. Grande ammirazione per Alessandro, sì, ma temperata con un discreto e sereno accenno, in sottofondo, ai suoi non pochi eccessi.
Et hercule, iuste aestimantibus Regem, liquet
BONA naturae eius fuisse: VITIA, vel fortunae vel aetatis.
Non sarà ozioso a questo punto... ascoltare qualche altro panegirico meno entusiastico: ci guadagnerà indubbiamente il vostro senso critico, se saprete ascoltare anche Seneca...
Agebat infelicem Alexandrum FUROR ALIENA VASTANDI et ad ignota mittebat.
An tu putas sanum,
qui a Graeciae primum cladibus, in qua eruditus est, incipit ?
Qui quod cuique optimum est eripit,
Lacedaemones servire iubet, Athenas tacere ?
Non contentus tot civitatium strage, quas aut vicerat Philippus aut
emerat,
alias alio loco proicit, et toto orbe arma circumfert.
Nec substitit unquam lassa crudelitas
immanium ferarum modo, quae plus quam exigit fames mordent !
Iam in unum regnum multa regna coniecit,
iam Graeci Persaeque eundem timent,
iam etiam a Dareo liberae nationes iugum accipiunt:
it tamen ultra Oceanum Solemque,
indignatur ab Herculis Liberique vestigiis victoriam flectere,
ipsi naturae vim parat !
NON ILLE IRE VULT, SED NON POTEST STARE,
non aliter quam in praeceps deiecta pondera,
quibus eundi finis est iacuisse ! SENECA, Ad Luc., ep. 94
...e anche Lucano. Per costui (Pharsalia X,39), Alessandro
Isset in occasus mundi, devexa secutus
ambissetque polos Nilumque a fonte bibisset.
Occurrit suprema dies, naturaque solum
hunc potuit finem VESANO ponere REGI !
La Pagina è di CURZIO, l.X, c.XXV
Vis incredibilis animi.
Laboris patientia propemodum nimia.
Fortitudo non inter reges modo excellens,
sed inter illos quoque quorum haec sola virtus fuit.
Liberalitas saepe maiora tribuentis quam a diis petuntur.
Clementia in devictos:
tot regna, aut reddita quibus ea dempserat bello, aut dono data.
Mortis, cuius metus ceteros exanimat, perpetua contemptio.
Gloriae laudisque ut iusto maior cupido,
ita ut iuveni et in tantis admittenda rebus.
Iam pietas erga parentes: quorum
Olympiada immortalitati consecrare decreverat, Philippum ultus erat.
Iam in omnes fere amicos benignitas, erga milites benevolentia.
Consilium par magnitudini animi
et quantum vix poterat aetas eius capere, solertia.
Modus immodicarum cupiditatum.
Veneris intra naturale desiderium usus,
nec ulla nisi ex permisso voluptas.
Ingentes profecto dotes erant !
Illa fortunae:
diis aequare se et coelestes honores accersere
et talia suadentibus oraculis credere
et dedignantibus venerari;
ipsum vehementius quam par esset irasci.
In externum habitum mutare corporis cultum:
imitari devictarum gentium mores,
quas ante victoriam spreverat.
Nam iracundiam et cupidinem vini sicut iuventa irritaverat,
ita senectus mitigare potuisset.
Fatendum est tamen,
quum plurimum VIRTUTI debuerit, plus debuisse FORTUNAE,
quam solus omnium mortalium in potestate habuit.
Quoties illum a morte revocavit ?
Quoties temere in pericula vectum, perpetua felicitate protexit
?
Vitae quoque finem eundem illi, quem gloriae, statuit.
Expectavere eum fata dum Oriente perdomito aditoque Oceano
quidquid mortalitas cupiebat impleret.
Huic Regi Ducique successor quaerebatur:
sed maior moles erat quam ut unus subire eam posset !
Itaque nomen quoque eius et fama rerum
in totum propemodum orbem reges ac regna diffudit;
clarissimique sunt habiti
qui etiam minimae parti tantae FORTUNAE adhaeserunt.
NOVEMBRE 22
Sto stralciando per voi notizie di missionari. A più di uno sembrerebbero le "Mille e una notte". Quella Lettera che ora ho tra le mani porta la data del septimo Kal.Nov. 1565. Firmata da un fratello gesuita portoghese, Aloisius Almeida, uno dei sette/otto che stanno cercando di penetrare nella capitale MIACO, Kyoto, sogno infranto del Saverio.
Da quelle parti brulicano le novità: non solo guerre e devastazioni, ma anche incendi, terremoti... e un freddo pungente da non dire. Hyemis initium erat asperrimae: iuga montium nive cooperta, quae assidue cadebat densa adeo, ut iam tum experiri liceret inter eius regionis et aliarum frigora quantum interesset ! In questo ambiente troveremo oggi (e vi risparmio altre precisazioni geografiche o anagrafiche) il gentile ospite -guarda un pò, battezzato SANCHEZ! per la precisione, SANCHO; ma SANCHEZ è proprio "figlio di Sancho"- che ci inviterà al the (nella loro lingua, Chia). Atque ut nos adventare cognovit ex optimatibus quidam christianus, nomine SANCTIUS, certos homines obviam misit nobis, instructo maiori navigio, in quod e nostro myoparone transcendimus. Ad eumque perducti, liberaliter admodum et amanter excipimur. Domum is habebat peramoenam, in usus hospitum atque advenarum, intra aedium suarum septa, more patrio separatam ac propriam. Eam nobis ad diversandum assignavit..."
Tralascierò infinite altre amenità. Quando il nostro missionario accenna al suo stringato programma di viaggio, che lo obbligherà a partire l'indomani, il tempo si mette al brutto: Eo ipso die tanta nix caelo delapsa est, quanta his annis quinquaginta nunquam!... Sanctius in me curando plane paternam assiduitatem ac diligentiam praestitit, cum et noctem ipsemet cum duobus tribusque administris aegrotanti mihi sedulo assisteret ageretque vigilias... In poche parole: Sanctius è un vero campione di gentilezza cristiana made in Japan! Tum ille, quoniam quidem mihi abire certum esset, velle se ait nonnulla mihi e suis thesauris ostendere. E siamo così arrivati finalmente al THE.
Ritus est Iaponiorum, qui quidem nobilitate ac divitiis praestant, hospitibus paulo honoratioribus in digressu, benevolentiae causa, praebere spectanda quae apud sese pretiosissima sunt. Id est, omne instrumentum necessarium ad potionem herbae cuiusdam in pulverem redactae, suavem gustu, nomine CHIA... (Una teiera o "natsume", very typical, con tanto di cristianissimo IHS, è recentemente comparsa in un francobollo giapponese).
Sono lieto di poter offrirvi in omaggio un interessantissimo particolare bibliografico. Queste Lettere, le troviamo in smagliante latino perchè il Re di Portogallo aveva chiesto ai gesuiti uno che potesse latinizzare per i secoli le LUSITANORUM RES GESTAS (è il MAFFEI !). Orbene, quel libro, stampato a Colonia 1574, è già diffuso per tutta l'Europa quando da noi arrivano i Principi Giapponesi (1583), che stanno allora iniziandosi al LATINO. Qualcuno a Roma avrà fatto loro vedere questo libro, QUESTO STESSO che io ho tra le mani, che apparteneva allora alla biblioteca del Collegio Romano !
Est autem MODUS POTIONIS eiusmodi:
pulveris eius quantum uno iuglandis putamine continetur,
coniciunt in fictile vas,
ex eorum genere quae puteolana (porcellana) vulgus appellat.
Inde, calenti admodum aqua dilutum ebibunt.
Habent autem in eos usus ollam antiquissimi operis ferream,
figlinum, poculum, cochlearia, infundibulum eluendo figlino, tripodem,
foculum denique potioni calefaciendae.
Haec igitur Iaponiorum est gaza,
nec sane apud eos minoris est quam apud nostros homines
annuli, gemmae, et e carbunculis atque adamante monilia.
Sunt etiam periti earum rerum aestimatores atque proxenetae.
Pulvis autem ipse, magno admodum pretio venit,
eiusque propinationem solennes praecedunt epulae.
Quin etiam certae aedium partes dicantur hisce conviviis,
quarum est mira mundities, nec in alios patent usus.
Postridie igitur me per nuntium accersit Sanctius,
cuius e cubiculis, per angustam admodum ianuam,
cum neophytis duobus in xystum educimur.
Inde scalae nos excipiunt cedrinae,
admirabili quodam artificio elaboratae,
eaedemque ita purgatae mundaeque ut
nunquam ad eam diem calcatae pedibus esse viderentur.
Per eas in atriolum ascendimus.
Inde, arcto aditu, in caenaculum ducimur, convivio destinatum,
usque adeo egregio perfectum opere,
ut hominum manu fieri potuisse vix credas !
Pars erat eius caenaculi armariis instructa more nostro.
Stabat e creta nigerrima foculus, ulnae ambitu,
ipsa nigredine, quod mirere, splendorem aequante lucidissimi speculi:
olla tripodi admodum eleganti superimposita, pulchra ad aspectum,
quam dixit mihi unus e neophytis,
optima condicione sexcentis aureis coëmptam a Sanctio,
sed revera multo pluris esse !
Interea mensa nobis apponitur,
non tam ciborum varietate (quos terra ipsa non fert)
quam genere ministerii et munditiis elegans.
Eximia est enim gentis in conviviorum apparatu solertia.
Nullus praeterea, quamvis in maxima discumbentium multitudine,
strepitus; vix hiscere famulum videas !
Omnia ad modestiam et gravitatem mire composita.
Peracto prandio, nixi omnes genibus
(nam hoc apud Iaponios christianos in more positum est)
Deo gratias egimus. Tum Sanctius potionem quam dixi CHIA
sua ipse manu miscuit nobis atque porrexit. Deinde...
NOVEMBRE 23
Su questo terrificante argomento ho un prolegomeno divertente: avevo trovato, prima del testo originale del Petrarca, un altro, che i compilatori del Thesaurus Antiquitatum et Historiarum Italiae avrebbero latinizzato per conto proprio. Loro infatti, ben sapendo che il Petrarca era stato testimone di quel terremoto o maremoto, e non essendo riusciti a trovarne se non una versione in vernacolo, offrivano la propria versione, introdotta però da questo insidioso e sospetto avviso: cuius sensus hic est. Secondo me quel latino, ovviamente coincidente soltanto per approssimazione, lo avevano inventato loro. E mi volevo divertire nel mettervi dinanzi a due testi "paralleli".
Alla fine del mio primo affaticante montaggio di queste spigolature, ho preferito cancellare il testo "fasullo" e offrirvi soltanto il testo primario, quello autentico del Petrarca. Lo potresti trovare, come l'ho trovato io, in qualche arcaica raccolta delle OPERA OMNIA, di non facile lettura. L'altro, nel Thesaurus, volume sulla Campania. Io preferisco lasciare libere due delle cinque giornate prima occupate. Ci guadagna così un suo spazio il tema esotico del Giappone, che spero troverà un vostro maggiore gradimento.
Al terremoto napolitano conferisce particolare pregio la confessione dello stesso Petrarca; non si trova mai a suo agio con questi brutti scherzi della natura ! Vi segnalo anche l'esplicito suo disegno di scrivere un eventuale poema su questo doloroso argomento (nihil terribilius, nihil concitatius): egli stesso ne anticipa il prefabricato titolo: NEAPOLITANA TEMPESTAS.
FRANCESCO PETRARCA, De rebus familiaribus, epistolae,
Libri V, Ioanni Columnae. V
Terraemotum timeo.
Contra terraemotum nullae sunt latebrae, nulla fuga.
Quo enim extra terram fugiat terrenus homuncio,
aut quid fiet si
et supra verticem caelum tonat
et sub pedibus terra tremit ?
Nisi forte quis in pelagus fugiendum dicat,
quod et coelestis et terrestris varietatis est particeps
et suis insuper motibus inquietum !...
Alii alias tempestates canant,
mihi, si unquam vacuum tempus erit,
NEAPOLITANA TEMPESTAS carminis materiam abunde tribuet.
Quae non neapolitana tantum
sed totius Superi atque Inferi Maris
et UNIVERSALIS quodammodo tempestas, ut opinantur, fuerit;
mihi NEAPOLITANA est, quia me Neapoli graves moras agentem repperit...
Hoc tibi persuade,
nihil umquam horribilius, nihil concitatius visum esse.
(Ex Dialogo XCI, De Terraemotu)
Provenerat quidam, mirum dictu, instantis mali fama
religioso quodam episcopo astrorumque curioso,
vicina quadam insula,
aliquot ante diebus periculum nuntiante,
sed ut fere numquam isti coniecturis ad verum penetrant,
non maritimum sed terrestrem motum praedixerat,
ruituramque Neapolim ad VII Kalendas decembris MCCCXLVIII.
Usque adeo miris cuncta terroribus is impleverat ut
magna pars populi peccatorum poenitentiae
et sub mortem mutando vitae statui intenta
omne aliud negotii genus abiiceret,
multis contra vanos metus irridentibus,
eoque magis quod per eos dies
non parvis quibusdam tempestatibus in die erratum
et tota vaticinii fides absumpta videbatur.
Ego neque spei plenus nec timoris,
ut ad neutrum prolapsus,
sic ad utrumlibet pronus eram, sed pronior ad timorem.
Nam et fere hoc in rebus est
ut segnius sperata quam formidata proveniant,
et multas eo tempore caeli minas audieram ac videram.
Quem, gelidis in regionibus habitare solitum,
monstri instar hiemali frigore
in metum ac pene in religionem verterant. Quid plura ?
NOVEMBRE 24
Nox aderat quam lux suspecta sequebatur.
Trepidula feminarum turba
periculi potius quam pudoris memor,
per vicos plateasque discurrere
atque ad pectora pressis infantibus
supplex et lachrymosa templorum liminibus obversari.
Trepidatione igitur publica permotus
prima vespera domum redii.
Solito quidem tranquillius caelum erat
qua fiducia, qui mecum sunt,
maturius in cubiculum concesserant.
Mihi spectare visum est contemplaturo
qua luna fronte occumberet
(erat autem, nisi fallor, septima).
Institi igitur, ad occasum spectantibus fenestris,
donec eam obvolutam nimbis et moesta facie
ante medium noctis proximus mons abscondit.
Tum demum ad lectulum redeo meum
et dilatum soporem excepturus ingredior.
Vixdum totus obdormieram cum repente
horribili fragore non tantum fenestrae
sed murus ipse saxea testudine solidus,
ab imis fundamentis impulsus tremit,
et nocturnum lumen sopito mihi vigilare solitum extinguitur.
Excutimur stratis et in locum somni
vicinae metus mortis ingreditur.
Ecce autem dum inter tenebras alter alterum quaerit
et beneficio dirae lucis ostensos
trepidis invicem nos vocibus cohortamur,
religiosi viri, quorum aedibus habitamus
et sanctissimus eorum prior
quem honoris causa nomino, David,
qui ex more ad nocturnas Christi laudes surgebant,
repentino malo territi
crucibusque ac sanctorum reliquiis armati
et alta voce Dei misericordiam implorantes
thalamum ubi ego eram praelatis facibus irrumpunt.
Revixi tantisper. Omnes inde ad ecclesiam pergimus
ibique effusi multis cum gemitibus pernoctamus,
cum iamiam adfuturum finem
et ruitura circum omnia crederemus.
Longius eam si omnem illius infernae noctis horrorem
verbis amplecti velim,
et quamvis longe citra verum sistat
viri tamen fidem transcendet oratio.
Quis imber, qui venti, quae fulmina,
quis caeli fragor, quis terrarum tremor,
quis mugitus pelagi, quis hominum ululatus
cum in hoc statu
quasi magicis carminibus geminato noctis spatio
ad auroram vix tandem venissemus et diei vicinitas
magis coniectura animi quam lucis indicio appareret.
Amicti sacerdotes sacra altaribus instaurant
et nos caelum nudum intueri ausi
in uda et nuda circum tellure prosternimur;
caeterum, cum haud iam dubia, licet nocti simillima, dies,
sed omnis repente clamor hominum
superiore urbis parte siluisset
sed de litorea regione magis magisque crebresceret,
neque percontando quid rei esset appareret,
desperatione ut fit in audaciam versa, equos ascendimus
et ad portum visuri moriturique descendimus.
Dii boni, quando umquam tale aliquid auditum est !
Decrepiti nautae rem sine exemplo asserunt:
in ipso portus medio foedum ac triste naufragium !
Sparsos aequore miseros
et vicinam terram manibus praehendere molientes
unda saxis impegerat,
et ceu totidem tenera ova disiecerat !
Totum elisis et adhuc palpitantibus
refertum cadaveribus littus erat !
Huic cerebrum, illi praecordia fluebant.
Haec inter, tantus virorum strepitus,
tantaque mulierum eiulatio,
ut maris caelique fragorem vincerent.
Accedebat aedium ruina, quarum multa funditus
violentiorque fluctus evertit,
cui nullus die illo limes,
nulla vel humanae manus reverentia:
ipsos naturae statutos fines
et litora consueta transcenderat.
Et tam moles illa ingens, studio hominum aggesta
quae obiectu laterum (ut ait Maro) portum efficit
quam omnis vicina mari regio undis obruta
et ubi planum siccis aedibus interfuerat
periculosa navigatio facta erat.
NOVEMBRE 25
Mille illic vel eo amplius Neapolitani equites,
velut ad exequias patriae convenerant
et ego turmae immixtus
iam parcius timere coeperam tanta cum acie periturus;
dum novus repente clamor tollitur.
Locus ipse in quo stabamus,
fluctu subter penetrante, domitus ruebat;
eripuimus nos in editiorem locum.
Non erat oculos in altum mittere,
iratam Iovis ac Neptuni faciem mortalis acies non ferebat.
Mille inter Capreas atque Neapolim
fluitabant undarum montes;
non caeruleum aut (quod in magnis tempestatibus solet) nigrum,
sed canum horrifico spumarum candore fretum cernebatur.
Regina interim iunior, nuda pedes et inculta comas,
et cum ea femineum ingens agmen,
expugnata periculis verecundia, regia egrediuntur,
et ad Reginae Virginis templa festinant
orantes veniam rebus extremis.
Sed iam tanti pavoris exitum pavide nisi fallor exspectas.
Aegre nos in terris evasimus !
In alto navis nulla par fluctibus inventa; ne in portu quidem !
Massiliensium longas naves (quas Galeas vocant),
quae Cypro reduces et tot maria emensae,
mane navigaturae in anchoris stabant,
illachrymantibus universis,
nemine autem ferre auxilium valente, fluctibus mergi,
nautarum atque vectorum ne uno quidem salvo, vidimus.
Aliae quoque maiores et omnis generis naves
quae in portum
velut in arcem tutissimam confugerant,
pari fine consumptae sunt.
Una de tam multis sola superfuit, onerata latronibus,
quibus iustum supplicium remissum erat
ut in expeditionem Siculam mitterentur
et huic gladio erepti,
in illos inciderent.
Horum ingens quaedam et fortissima
et taurinis coriis armata navis
cum usque sub occasum solis vim pelagi pertulisset,
tandem et ipsa vinci coeperat.
Illi vero undique fatiscenti carinae
supremis urgentibus periculis occurrunt.
Erant enim, ut aiunt, quadringenti numero,
turba classi, nedum navigio, sufficiens,
et erant viribus pollentes,
et qui a morte liberati,
nihil iam gravius formidarent
eoque pertinacius atque animosius obsisterent.
Itaque dum differunt sensimque merguntur,
usque ad proximae noctis partem naufragium traxere;
tum victi, desertis armis,
in superiora navis eruperant.
Dum ecce praeter spem
et caeli vultus serenari
et fessi maris ira lentescere coepit.
Itaque cunctis pereuntibus, pessimi omnium evasere !
Sive servat multos fortuna nocentes (ut Lucanus),
sive quia diis aliter visum est (ut Virgilius ait),
sive ut intelligi detur
illos inter mortis pericula tutiores, quibus vilior vita est.
Haec hesternae historiae summa est
quae ne frustra digitos meos auresque tuas detinuerit,
- quamvis humanorum discriminum amplam praeferat materiam
de quibus multa quidem saepe,
sed pro rei qualitate pauca
semper a sapientibus dici solent -
hoc unum mihi certe praestiterit:
ut te obsecrem ne me umquam amplius
vitam ventis ac fluctibus credere iubeas.
Hoc enim est in quo
neque tibi neque Romano Pontifici
neque patri meo si ad lucem redeat
parere velim.
NOVEMBRE 26
Non proprio così. Il Giappone è un altro mondo: anche se la comparsa di una Maria Antonietta orientale potrebbe dar questo colore alle nostre pagine; il solo titolo vi dirà più dei miei commenti. La ghigliottina qui non c'entra; prolifera al suo posto il "harakiri". In parole brevi: tira aria di "golpe", sì, ma in tutt'altro modo; e abbiamo in mano il réportage latino di chi dentro ci è proprio cascato. Data precisa: agosto 1565; il latino però è quello inossidabile del Maffei (ultima delle lettere del DE REBUS JAPONICIS, Epistolarum libri V, diverse edizioni: in quella di Colonia 1574, pag. 447 ss.)
Autore del ben ordinato racconto è il portoghese Luís Frois, SJ (uno dei due gesuiti che, da soli due anni lavorano in quella città che è la maggiore dell'Impero: ci regalerà anche una rapidissima pennellata sul suo compagno di lavoro, Gaspare Vilela): dopo il "golpe" è toccato a lui essere sbalzato da quella atrox procella nell'isola di Canga: pensateci: dalla paradisiaca evangelizzazione (avevano celebrato il giorno di Pentecoste il Giubileo offerto dal Papa per propiziare i frutti del Concilio di Trento), parcheggiato ora in uno sperduto e sconosciuto isolotto !
IOANNES PETRUS MAFFEI, ut supra explicatum.
GASPAR in febrim inciderat: ego non optima sum usus valetudine.
Tamen concursu ad nos christianorum facto,
dominica Pentecostes, imbecillitatem nostram Domino fulciente,
per occasionem tam amplae consequendae indulgentiae,
multos verbo Dei et sacratissimo Christi Corpore pavimus...
Iamque parabat VILELA totam hanc Meacensem obire provinciam,
et prout se obtulisset occasio per amicorum pagos et oppida
circumferre Evangelium, cum coeptis intervenit
ATROCISSIMUM ET POST HOMINUM MEMORIAM INAUDITUM FACINUS,
quod non modo conatus nostros omnino impediret,
sed etiam nos ipsos in extremum vitae discrimen adduceret.
Nam Regulus Imorensium (de quo scripsi ad vos antea) MIOXINDONUS,
devictis a se gentibus quibusdam, potentiaque et opibus auctus,
ipsum quoque CUBUCAMAM (sic Imperii Principem nominant)
ut in pace otioque securum et imparatum a rebus omnibus,
certe nihil eiusmodi metuentem,
imperio, quod magna cum aequitate regebat,
per summum scelus atque perfidiam deturbare
AC TYRANNIDEM OCCUPARE CONSTITUIT.
Neque apud inflammatum dominandi libidine animum
vel Cubucamae virtus et probitas
vel plurima eaque maxima ab eodem in se profecta beneficia valuere.
Igitur assumptis latrocinii sociis duobus,
Narensium Tyranno DAIONDONO et alio quodam Dynasta,
cum delectis armatorum duodecim millibus,
repente MEACUM iter intendit,
eo certiore spe rei perficiendae,
quod et ipsi CUBUCAMAE nomine universae rei bellicae praeerat,
et primos habebat in urbe Meaco clientes atque satellites.
Copiis ergo prope urbem iussis opportuno loco subsistere,
ipse cum fidelium manu MEACUM ac REGEM specie officii ingreditur,
nimirum ut, quibusdam recentibus honoris insignibus a CUBUCAMA decoratus,
ei gratias ageret.
Atque, ut quod volebat quam maxime sine tumultu transigeret,
ad alia verborum officia illud etiam addit,
ut Cubucamam in suburbanum quoddam Bonziorum coenobium
blandis precibus ad caenam invitet.
Namque ibi circumventum adoriri placuerat.
Sed cum res parum procederet,
quod Cubucama de considente prope Meacum exercitu
factus denique certior et suspicatus id quod erat,
non modo se MIOXINDONO minime crederet, sed etiam fugam pararet
(ex qua deinde imprudenti comitum suorum consilio revocatus est),
MIOXINDONUS aperte ratus agendum,
copias omnes ad regiam propius admovet:
ac ne inexpiabili in suum Imperatorem ac regem odio
accensus esse videretur,
dum inops consilii Cubucama cum familiaribus trepidat,
praemittit ad regiam qui palam denuntiet se
CUBUCAMAE ipsius caput minime petere,
certis tantum eius cognatis amicisque graviter infensum,
eorum potentiam ultra ferre non posse.
Itaque tum demum rem conventuram seque inde cum pace abiturum,
si complures proceres, quos nominatim in schedula descripserat,
quam primum interfici iubeat.
Ad haec tam insignis impudentiae postulata,
ira maxima percitus is qui ad ea cognoscenda
Cubucamae iussu prodierat (grandis natu aulicus ille ipse
qui nos ad Cubucamam introducere consueverat),
abiecta quam legerat schedula,
verbisque gravissimis in parricidas invectus, ad extremum addit,
rebus iam desperatis, quoniam quidem alia ratione non posset,
certe voluntaria morte sese officio fideique suae satis esse facturum.
His dictis regressus in regiam, coram ipso CUBUCAMA strictum pugionem,
gentis more, sibi condit in viscera et moribundus occumbit.
Eodem ipso letho quattuor alii, cum prae timore occlusis ianuis,
non admitterentur, mox in ipso regiae periere vestibulo.
NOVEMBRE 27
Senis vero demortui filius, ut patrem conspexit exanimem,
praeceps dolore atque iracundia, fertur in coniuratos infestus,
pugnansque perimitur: illi pluribus locis palatio flammas iniciunt.
Quod, ut sensit CUBUCAMA,
certus proelio potius quam incendio mortem oppetere,
ex honestissimae gravissimaeque feminae matris amplexu se proripit
vaditque cum suis armatus in confertam hostium aciem:
ibi quam acerrime dimicans,
ventrem hastili, caput sagitta confixus,
duobus praeterea vulneribus acceptis in facie, concidit.
Super eum proeliantes egregie,
centum circiter aulici primae nobilitatis viri sternuntur;
quorum cum animi magnitudo ac fidelitas omnium
tum praesertim adulescentuli cuiusdam
quartumdecimum annum agentis enituit.
Qui cum in certamine hostes paene obstupefecisset audaciae miraculo,
eumque vivum, sublato undique clamore, conarentur excipere,
ille CUBUCAMAM defunctum intuitus,
sibique turpissimum ratus Regi suo Dominoque esse superstitem,
ense confestim abiecto, pugionem arripuit;
abscissoque sibimet gutture, eumdem pugionem adegit in viscera.
Inter haec hostes qua per incendia patuit aditus,
in regiam frequentes irrumpunt.
Fratrem CUBUCAMAE, Bonzium, una cum matre,
nequaquam vel huius adolescentiam vel illius senectutem miserati,
acerbissime contrucidant.
Regia gaza diripitur: cuncta ferro flammaque miscentur.
Honorariae puellae ac pedissequae,
regulorum fere ac principum filiae et clarissimis ortae familiis,
omnia miserabiliter eiulatu gemitibusque complentes,
inter obsessos armatis exitus conantur sibi fuga consulere.
Quarum aliquae vestimentis etiam in illa ipsa immanitate
petulanter atque procaciter a militibus exuuntur:
aliae vero ad viginti, dum ancipiti metu distractae,
hinc micantes horrent gladios, inde saeviente perterrentur incendio,
in conclave quodam abditae quo nondum flamma pervaserat,
igne deinde grassante, opinione celerius,
ibidem oppressae atque ad unam omnes absumptae sunt.
Porro CUBUCAMAE ipsius filiae duae,
ad pedes hostium prostratae suppliciter,
Christiani cuiusdam beneficio
in aedes propinquas amicorum incolumes evasere.
At mater ipsarum, REGINA, inter ancillarum greges
tum quidem elapsa feliciter, in quoddam sese coenobium recepit,
passibus mille circiter et quingentis ab urbe disiunctum;
sed paulo post a conquisitoribus deprehensa,
ubi sese DAIONDONI et MIOXINDONI iussu morti destinatam esse cognovit,
chartam atque atramentum poposcit
scripsitque sua manu multis verbis ad filiam litteras...
Deinde, obsignata epistola,
cum Bonziis apud quos delituerat gratias egisset,
ad aram AMIDAE perrexit:
ibi, manibus sublatis in caelum, obtinendae indulgentiae causa,
AMIDAM bis invocat nominatim, et simul coenobiarcha
absolutionis indicium manus capiti supplicantis imponit.
Inde regressa in cubiculum,
elatis manibus AMIDAM rursus appellans, a sicariis iugulata est.
Iamvero qui CUBUCAMAE in extremo certamine affuerant,
eorum aedes direptae, suburbana aedificia solo aequata,
corpora simul cum ipso palatio concremata sunt.
CUBUCAMAE tantum cadaver, hostium permissu,
a Bonziis ad rogum et sepulturam elatum est
in coenobium quod ille ad eam ipsam rem ingenti sumptu construxerat.
Primarius autem quidam e CUBUCAMAE familiaribus
peregre proficiscens, cum rem gestam in itinere cognovisset,
Meacum rediit illico, atque,
ubi deletam regiam et omnia versa vidit in cineres,
sepulturae locum recta petiit, ibique, dissecto sibimet ventre,
super CUBUCAMAE tumulum corruit.
Sorores CUBUCAMAE duae sunt Bonziae; quas, quamvis inclusas coenobio,
nihilominus aiunt peti conviciis atque ludibriis hostium:
atque ob id ipsum a sodalibus perpetuo custodiri,
vigiliis distributis, ne sibimet necem ex desperatione consciscant.
Nos interea, civitate ad acerbum adeo spectaculum ingenti pavore
perculsa,
cum domum nostram neophyti confugissent,
ad preces ac litanias conversi videlicet,
mortem exspectabamus in singula paene momenta.
Nec sane, quod Bonziorum in nos odium est,
quaeque eorumdem apud MIOXINDONUM atque DAIONDONUM gratia et auctoritas,
non multum ab extremo periculo abfuimus.
Sed cum ad nos clam venisset pro amicitia scriba MIOXINDONI,
pectus feriens et impietatem domini sui gravissime detestans et
increpans,
multis deinceps nuntiis atque interpretibus ultro citroque missis,
magno vix tandem labore impetratum est,
sacra iam veste coeteroque instrumento in pacata loca praemisso,
ut exsulatum nobis abire liceret.
Itaque Gaspar IMORIM ad christianum profectus est,
ego parva sum relegatus in insulam nomine Cangam...
NOVEMBRE 28
Mettiamo prima in chiaro qualche punto. A che livello puntava questa prima levata di scudi delle donne romane? Niente erotismo, niente trasgressione, niente striscioni inneggianti al divorzio o all'aborto, niente provocazioni spudorate, del tipo "Il corpo è mio e me lo gestisco come mi piace" (Fori Imperiali anno 1985 ?). Grazie a Dio, le nostre così dette "conquiste civili", nefandezze erano ancora, al 100% ! ad Atene ed a Roma.
Nessuno pensava, in quei tempi di primigenia semplicità, che la squallida prostituzione (si dice la professione piú antica del mondo) noi l'avremmo portata a livelli ancor più puzzolenti: i sindacati delle lucciole, il cinema a luci rosse, i telefonini, gli schermi notturni e senza veli della TV (c'è perfino chi si annuncia 24 ore su 24), cibo prelibato per i "guardoni" incapaci di fare un primo passo verso la più elementare umana dignità.
Allora... a quale livello arrivava il femminismo post-annibalico? Diciamolo con la parola più esatta; al livello di una bonaria civetteria. Un "referendum" (termine nascosto sotto tulerunt, da referre) contro la LEX OPPIA, il solo punto di mira della protesta. Ve la introduco subito, con le scarne parole di Tito Livio: dove MATRONAE non saranno certo le "teenagers".
Inter bellorum magnorum, aut finitorum aut imminentium, curas
intercessit RES PARVA DICTU,
sed quae studiis in magnum certamen excesserit.
M.Fundanius et L.Valerius, tribuni plebei,
ad plebem tulerunt DE OPPIA LEGE ABROGANDA.
Tulerat eam C.Oppius, tribunus plebis,
in medio ardore Punici Belli:
"Ne qua mulier plus semunciam auri haberet;
neu vestimento versicolori uteretur;
neu iuncto vehiculo
in Urbe oppidove aut propius inde mille passus,
nisi sacrorum publicorum causa, veheretur".
Tutto qui ! Come ben vedete, nemmeno una parola di suono equivoco. Se poi, nei lunghi discorsi ufficiali del Console Marco Catone o del Tribuno delle Plebe L.Valerio (che farete bene a voler leggere per intero) risuonerà la parola luxuries, non vi tragga ciò in inganno; a quel tempo ha il solo valore di "lusso, sfarzo": per il resto ci sono mollities, impudicitia e altri vocaboli. Pensate che, perfino quando nelle epigrafi delle vestali si elencano le virtù di alcune di loro, la parola castitas sta soltanto per esattezza, rigore, onestà al 100%, rispetto delle buone regole: l'altro è più che scontato: quei tempi erano meno inquinati dei nostri !
Ora, in pagina, il colore televisivo di T.LIVIO (A.U.c. XXXIV, Is.)
Marcus et Publius Iunii Bruti tribuni plebis
LEGEM OPPIAM tuebantur.
Nec eam se abrogari passuros aiebant.
Ad suadendum dissuadendumque multi nobiles prodibant.
Capitolium
turba hominum FAVENTIUM ADVERSANTIUMque legi complebatur.
MATRONAE (nulla nec auctoritate nec verecundia
nec imperio virorum contineri limine poterant)
omnes vias Urbis aditusque in Forum obsidebant,
viros descendentes ad Forum orantes,
ut florente republica,
crescente in dies privata omnium fortuna,
matronis quoque PRISTINUM ORNATUM reddi paterentur.
Augebatur haec frequentia mulierum in dies;
nam etiam EX OPPIDIS CONCILIABULISque conveniebant.
Iam et consules praetoresque et alios magistratus
adire et rogare audebant.
Ceterum minime exorabilem alterum utique Consulem,
Marcum Portium Catonem, habebant.
Qui, pro lege quae abrogabatur, ita disseruit: "...
(sequitur prolixior oratio,
quam merito in prolixiore editione Titi Livii quaeretis).
Post haec Tribuni quoque Plebis,
qui se intercessuros professi erant,
cum pauca in eandem sententiam adiecissent,...
(Idem fac repetas; utiliter hilariterque legetis)
Haec cum CONTRA legem PROque lege dicta essent,
aliquando maior frequentia mulierum
postero die sese in publicum effudit,
unoque agmine omnes Tribunorum ianuas obsederunt,
qui collegarum rogationi intercedebant.
Neque ante abstiterunt
quam remissa intercessio a Tribunis esset.
Nulla deinde dubitatio fuit quin
OMNES TRIBUS legem abrogarent.
Anno vigesimo post ABROGATA EST, quam lata.
Marcus Porcius consul,
postquam abrogata est Oppia lex,
extemplo, viginti quinque navibus longis
(quinque sociorum erant)
profectus... Rhodam, Emporias in Hispania... (alla Costa Brava!)
NOVEMBRE 29
Non poteva mancare questa pagina. Che poi vi appella con una giusta dose di responsabilità. Essa viene qui inclusa non perché sconosciuta, ma perché sicuramente non è stata sempre studiata nel giusto modo. Non si tratta infatti, quando si sceglie un testo qualsiasi, di conoscerlo, di ricordare quello che in esso è detto, ma di studiare COME è detto. Con quale precisione di parola, con quali eleganze formali, in una parola, con quale arte. E l'arte di Tito Livio è di alta qualità pittorica, quasi si potrebbe dire televisiva, perfino ad alta definizione ! Non gli capita mai di perdersi una immagine che faccia al caso suo, come non gli succede di non trovare la parola giusta per quello che gli si para dinanzi all'occhio. A voler conteggiare i vocaboli diversi che compaiono in questa sola pagina, si resterà sorpresi della ricchezza inesauribile del lessico messo a frutto dal nostro autore patavino. E forse ciò potrebbe sbocciare in una lettura più attenta, magari anche con un taccuino a portata di mano per gli appunti. Fate la prova; troverete che ogni parola equivale ad un avviso per l'operatore della telepresa: "qui lo zoom!".
TITO LIVIO, Ab Urbe Condita XXI, 36-37
Ventum deinde ad multo angustiorem rupem,
atque ita rectis saxis, ut aegre expeditus miles
temptabundus manibusque retinens virgulta et stirpes circa eminentes
demittere sese posset.
Natura locus iam ante praeceps, recenti lapsu terrae,
in pedum mille admodum altitudinem abruptus erat.
Ibi quum, velut ad finem viae, equites constitissent,
miranti Hannibali quae res moraretur agmen
nuntiatur RUPEM INVIAM ESSE !
Digressus deinde ipse ad locum visendum:
haud dubia res visa,
quin per invia circa nec trita antea, quamvis longo ambitu,
circumduceret agmen.
Ea vero via insuperabilis fuit:
nam cum super veterem nivem, intactam,
nova modicae altitudinis esset,
molli nec praealtae nivi
facile pedes ingredientium insistebant.
Ut vero tot hominum iumentorumque incessu dilapsa est,
per nudam infra glaciem
fluentemque tabem liquescentis nivis ingrediebantur.
Taetra ibi luctatio erat;
via lubrica, glacie non recipiente vestigium,
et in prono citius pedes fallente, ut
seu manibus in assurgendo,
seu genu se adiuvissent,
ipsis adminiculis prolapsis, iterum corruerent;
(nec stirpes circa radicesve,
ad quas pede aut manu quisquam eniti posset, erant);
ita in levi tantum glacie tabidaque nive volutabantur.
Iumenta secabant interdum etiam infimam ingredientia nivem,
et prolapsa iactandis gravius in conitendo ungulis,
penitus perfringebant:
ut pleraque, velut pedica capta,
haererent in durata et alte concreta glacie.
Tandem nequidquam iumentis atque hominibus fatigatis,
castra in iugo posita,
aegerrime ad id ipsum loco purgato:
tantum nivis fodiendum atque egerendum fuit !
Inde ad rupem muniendam,
per quam unam via esse poterat,
milites ducti.
Cum caedendum esset saxum,
arboribus circa immanibus deiectis detruncatisque,
struem ingentem lignorum faciunt: eamque
(quum et vis venti apta faciendo igni coorta esset) succendunt,
ardentiaque saxa infuso aceto putrefaciunt.
Ita torridam incendio rupem ferro pandunt,
molliuntque anfractibus modicis clivos,
ut non iumenta solum,
sed elephanti etiam deduci possent.
Quatriduum circa rupem consumptum,
iumentis prope fame absumptis:
nuda enim fere cacumina sunt
et si quid est pabuli, obruunt nives.
Inferiora valles et apricos quosdam colles habent,
rivosque prope silvas,
et iam humanu cultu digniora loca.
Ibi iumenta in pabulum missa,
et quies muniendo fessis hominibus data triduo.
Inde ad planum descensum,
etiam locis melioribus et accolarum ingeniis.
NOVEMBRE 30
Se io fossi oggi ancora alla ricerca di un argomento per la Tesi di Laurea, sarei pronto a decidermi: anzi, avrei già trovato il titolo di partenza: LA CATARSI DI ASTURA. E con questo titolo vorrei accennare a quel periodo del 44 a.C., nel quale Cicerone, per smaltire il dolore per la morte dell'adorata Tulliola, non trovò di meglio se non rinchiudersi nei suoi pensieri e nelle sconfinate letture : In hac solitudine careo omnium colloquio; cumque mane me in silvam abstrusi, densam et asperam, non exeo inde ante vesperum. (Epist. Ad Atticum, XII, l5). Incomincerei quindi a rileggere di corsa quanto sui problemi del destino dell'uomo ha riversato Cicerone nei suoi più limati trattati; e punterei decisamente alla ricerca di quanto gli sia riuscito di far maturare con più intensa fede in quelle meditative passeggiate. (Programmatevi un rispettoso pellegrinaggio a Torre Astura!)
Dalla sola enumerazione cronologica delle OPERA OMNIA di Cicerone emerge subito che, proprio le più valide, sono state pubblicate dopo quel ritiro di Astura, quando cioè, all'età di 62 anni, riesce ancora a sfornare a getto continuo le Academica, l'Hortensius, il De Finibus, le Disputationes Tusculanae, il De Senectute, il De Natura Deorum e, omettendo altre cose minori, l'impegnativo De Officiis. Chi sa quanti altri titoli aveva preventivato di svolgere! Ma era per lui imminente l'indaffaratissima avventura delle Filippiche, e in meno di due anni, la tragica morte (in un dicembre del 43, che noi ricorderemo il prossimo 7 dicembre).
La CONSOLATIO, scritta a caldo in quei giorni (quin etiam feci quod profecto ante me nemo, ut ipse ME per litteras consolarer! -Ad Atticum, XII, 9), potrà apparire per certi versi un libro affrettato e sconvolto, ma da esso abbiamo qui potuto stralciare stupende pagine. Quella odierna poi dovrebbe spiccare per la sua quasi mistica sublimità. Una pagina, grondante così alte e religiosissime certezze, sembra incredibile in un autore che scrive nella babilonica Roma del 44 prima di Cristo. Assaporate per incominciare la vellutata serenità con la quale egli, in pochissime parole, introduce (se non dilata!) l'inquietante problema dell'aldilà: si direbbe perfino che oltrepassa i nostri mistici con quel solo e convintissimo asserto: Se Dio è AMORE, non c'è motivo di sentirci terrorizzati !!!
Et quamquam haec FUTURI POST MORTEM TEMPORIS cura
hominis propria non sit,
sed DIIS IMMORTALIBUS POTIUS RELINQUENDA, quorum nos
vel liberalitati vel sapientiae permittere FAS PIUMQUE ESSET:
(qui enim nascentium curam suscipiunt,
qui viventes protegunt.., alunt.., tuentur.., fovent..,
CUR MORIENTES DESERANT ?),
tamen aliquid etiam modeste de iis exquirere non est inutile.
Necesse est autem sit alterum de duobus:
ut AUT sensus penitus omnes mors auferat,
AUT in alium quemdam locum ex his locis morte migretur.
Quodsi morte SENSUS EXTINGUITUR,
obitusque noster ei somno similis est, qui nonnumquam,
etiam sine visis somniorum, placatissimam quietem affert;
quid lucri est emori ?
aut quod omnino tempus reperiri potest,
quod ei tempori anteponatur,
cui similis futura est perpetuitas omnis consequentis aetatis?
Sin MIGRATIONEM MALIMUS esse mortem
in eas oras quas e vita profecti incolunt:
quid optabilius quam ad eos proficisci
quos mortuos vivens dilexeris;
et cum iis PERPETUA VITA perfrui,
qui, ut nos in laude viveremus et libenter moreremur,
suis et praeceptis et exemplis
tanto opere laborarunt ?
Mihi certe nihil videtur evenire posse gratius,
quam, si mors aditum ad alia loca patefaciat,
ad eos venire et cum iis esse,
quos et maxime dilexi,
et numquam non diligere ac laudare possum.
Ad meos autem et affines et amicos ut pervenero,
quanto opere laetabor,
quae iucundior collocutio,
quis suavior vel congressus vel complexus ?
O vitam vere VITALEM (ut ait Ennius),
omnibus bonis ac gaudiis circumfluentem.
SED BEATAM ETIAM MORTEM,
QUAE AD BEATISSIMAM VITAM ADITUM APERIAT !
Me quidem,
etsi dolore vehementer perculsum et afflictum,
his tamen monitis et praeceptis
non mediocriter allevari sentio.
Itaque neminem puto fore, quem non rationes
a nobis tam studiose e sapientium libris collectae,
iuvent ac delectent:
eoque magis quo leviores erunt aliorum dolores,
quam hic, quo nos tanto opere vexati sumus.
CICERO, Consolatio, 38-41